Pubblichiamo le riflessioni di un nostro lettore in merito all’agricoltura e all’esigenza, di fronte alle crisi eterodirette e transnazionali del terzo millennio, di tornare a concentrare energie e risorse in uno dei più importanti settori economici del nostro paese e per decenni volutamente ignorato.
(Ulex)
Questi ultimi due anni sono stati densi di eventi degni di nota, due su tutti comunque spiccano per portata ed effetti: il coronavirus e la guerra in Ucraina. Il primo da una parte ha evidenziato le lacune venutesi a creare a seguito di una politica di tagli , non certo lungimiranti, il secondo dall’altra ha messo a nudo la sudditanza a cui l’Italia si è sottoposta nel corso degli anni, dando soddisfazione ad ogni richiesta dell’ U.E.
All’inizio del XX secolo l’Italia era una nazione prevalentemente agricola e lo è rimasta fino quasi al termine degli anni 60, quando entra in vigore la legge contro la mezzadria. Da lì in poi è stato un lento e costante abbandono della campagna ed un riversarsi continuo nella città, le quali fino ad arrivare ai giorni nostri sono diventate vere e proprie metropoli d’asfalta, dove ogni centimetro è ricoperto da cemento.
Senza ombra di dubbio una progressiva industrializzazione porta dei pregi, ma se si abbandona la campagna non si avranno più a disposizione i beni essenziali per la vita dell’uomo ed allo stesso tempo prodotti di nicchia tipici del” made in Italy” come pasta, olio, formaggio solo per citarne alcuni.
Di questo passo dunque si finisce per acquistare all’estero prodotti che invece sarebbero propri dell’Italia. Questo gravissimo errore, per anni celato, oppure accettato passivamente, ora è saltato fuori in tutta la sua drammaticità.
Pasta e riso, prodotti di eccellenza italiani, sono lievitati alle stelle, il motivo? In Italia si coltiva oramai pochissimo grano, il resto è acquistato dall’Ucraina, dalla Russia o dagli Usa. Ora che la guerra, dopo 80 anni tocca di nuovo il suolo europeo, le sue conseguenze si fanno via via più trasparenti e chi ne paga le conseguenze come sempre sono i ceti medio-bassi.
Considerando che la pandemia ha già gettato l’Italia nella recessione, la guerra si può considerare la ciliegina sulla torta. Un dilemma sorge spontaneo come combattere l’aumento dei beni primari? Perché se a rimetterci sono i ceti medio-bassi è pur vero che un’ impoverimento ancora maggiore della società non è certo il massimo per una nazione che vuole rialzarsi. Dunque il che fare?
È assolutamente necessario incentivare la produzione agricola di prodotti di prima necessità come pasta, pane e riso riqualificando ampi lotti di terreno lasciati all’incuria e promuovere la creazione di orti urbani affinché ogni comune possa poi avere riserve di cibo sufficiente. Inoltre si dovrebbe investire maggiormente nella scienza, in particolare nei rami della biologia e della chimica, dal momento che grazie ad essa si possono trovare molti prodotti biologici, che dovrebbero dare una mano enorme si alla cura sia alla crescita delle piante.
Sarebbe opportuno pure scambiare preziose informazioni con scienziati ed agricoltori olandesi, questi ultimi difatti sono all’avanguardia nel campo agricolo: hanno creato serre vastissime dove producono insalata biologica non solo per autoconsumo, ma anche per rivendita estera, ed in ogni città hanno creato apposite zone adibite agli orti urbani.
Non si deve poi dimenticare che una volta rigenerata l’agricoltura quest’ultima deve mirare al sostentamento del popolo italiano e solo in minima parte alla rivendita estera. Il fine di ogni governo giusto, saggio e premuroso, al di là di ogni schema partitico deve essere quello di far si che non manchi mai il cibo sulla tavola di ogni suo concittadino.
La guerra in Ucraina ha dimostrato la fragilità del settore primario e la dipendenza italiana dall’estero. Per evitare rincari e crisi ben peggiori l’Italia deve come una locomotiva rimettersi in moto e debellare la piaga della dipendenza alimentare.
Le materie prime ci sono, non è un caso che Sicilia e Puglia erano le riserve di grano dell’impero romano, manca la volontà dunque, ma è ora di tirarla fuori!