La freccia di Arjuna – insegnamenti dalla Bhagavadgītā – 3

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Nuovo appuntamento della rubrica dedicata alla Bhagavadgītā e ai suoi insegnamenti.
Abbiamo spesso ribadito quanto sia importante questo testo di sapienza tradizionale, per poter conformare la propria azione ai principi della Tradizione.
E, mentre ricordiamo lo splendido e fondamentale testo “L’etica del guerriero” di Mario Polia, edito da Cinabro Edizioni, proponiamo questi estratti con i puntuali approfondimenti e gli opportuni chiarimenti di Alessandro Zanconato.

La Bhagavadgītā  (“Il Canto del Beato”) è considerata a ragione “il Vangelo dell’India”, e fa parte del grande poema epico Mahābhārata (IV sec. a.C.). Si tratta di un dialogo metafisico e morale tra Arjuna, nobile condottiero della stirpe dei Pandava, in lotta contro i malvagi cugini Kaurava sul campo di battaglia di Kurukṣetra (che rappresenta l‘eterna lotta tra il Bene e il Male) e il dio supremo Krishna, avatara di Vishnu e cocchiere di Arjuna. Nel corso del dialogo, il dio istruisce l’anima di Arjuna sull’indistruttibilità del suo vero , l’Atman, e sull’etica dell’azione disinteressata (karma-yoga), fondata sulla rinuncia ai frutti dell’azione, per conseguire la liberazione dalle passioni dell’ego. Gli insegnamenti immortali di Krishna costituiscono l’essenza della Tradizione Primordiale, di cui la Bhagavadgītā rappresenta un gioiello spirituale inestimabile, che risplende di luce propria nell’oscurità dell’attuale Kali-Yuga.
BHAGAVADGITA II, 47 – SENZA EGO
Occupati solo dall’azione, non occuparti mai dei frutti. Non essere mai spinto ad agire dalla ricompensa, né d’altro canto abbi attaccamento per l’inazione.
Questo breve verso della Bhagavadgita è più eloquente di molti e voluminosi trattati di morale. Ad Arjuna che da un lato teme che la sua azione nel mondo comporti una dispersione nel mondo dei sensi, e che dall’altro è tentato di preferire l’inazione all’agire, il dio Krishna suggerisce una terza via tra i due errori. Né l’azione egoica, motivata da interesse personale (l’attaccamento ai “frutti”, al risultato, allo scopo immediato del piacere sensibile), né l’inerzia liberano l’uomo dall’angoscia. Solo l’azione disinteressata, compiuta per puro dovere, per semplice obbedienza al Dharma (la Legge cosmica che implica precisi doveri di casta, e per il guerriero, il dovere di combattere), non produce karma negativo, e quindi libera l’uomo dalla soggezione alle passioni.
Si tratta di una lezione eterna, pertanto sempre attuale, a maggior ragione nel secolo attuale, in cui l’uomo moderno appare imprigionato nella falsa alternativa tra l’agire frenetico e motivato da egoismo e la quieta ma sterile passività. Krishna invita ogni essere umano a rinunciare alla ricerca spasmodica del piacere, che si tratti dell’oggetto dei nostri desideri passionali oppure della falsa “pace dei sensi” di chi vive seduto su un divano, di fronte ad un televisore o al computer, illudendosi di poter evitare le sfide dell’esistenza.