Il sentiero della vita Nobile | Il tiro con l’arco

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Le origini
L’arco è sicuramente una delle invenzioni più importanti dell’uomo e ne ha accompagnato l’evoluzione. Ad esclusione dell’Australia, la Polinesia e la Micronesia, l’arco è conosciuto in tutto il mondo fin da tempi remoti. Essendo stato ideato e perfezionato in diverse epoche e paesi in modo del tutto indipendente, è difficile stabilire con esattezza il momento della sua comparsa; tuttavia, si può ragionevolmente considerarlo un’arma già affermata sin dal Paleolitico, come dimostrano alcune pitture rupestri ad Altamira (Spagna). L’ovvio e incredibile vantaggio che l’invenzione dell’arco portò nella caccia, era la possibilità di colpire la preda a distanza e in sicurezza.
Da questo attrezzo ancora primitivo, ma già complesso ed efficace al suo scopo, si sono evoluti, nelle differenti epoche e civiltà, decine di diversi e raffinati tipi di arco, a scopo bellico oltre che di caccia, e relative tecniche di tiro. Quando l’Europa era ancora abitata da popolazioni selvagge, in Cina si esponevano gli aspetti filosofici del tiro con l’arco, che aveva già raggiunto altissimi livelli di specializzazione in questo paese ed era parte integrante delle tecniche di guerra. L’arco era usato dagli antichi Egizi, che in tempi biblici avevano già sperimentato l’uso di metalli e altri materiali diversi dal legno, e inoltre dagli Sciiti, dai Babilonesi, dagli Assiri, dai Persiani e dai Parti che usavano archi corti e potenti, tirati direttamente dalla sella del cavallo.
Vanno infine menzionati gli arcieri mongoli e giapponesi la cui abilità nel centrare il bersaglio da un cavallo al galoppo era proverbiale e i Pellerossa, che con i loro archi erano in grado di abbattere bisonti e bufali in corsa.
In Europa la storia dell’arco ha il suo epicentro in Inghilterra, dove l’attrezzo, probabilmente introdotto dai danesi, si diffuse rapidamente nel Galles nel medioevo. Nonostante l’incredibile potenza dell’arco gallese e la grande abilità dei suoi arcieri, fu solo dopo la conquista normanna che i sovrani inglesi mostrarono di preferirlo alla balestra (più lenta da caricare) e l’attrezzo, con alcune modifiche, venne adottato in tutta l’isola. Si afferma così il long bow, l’arco lungo inglese, il “re degli archi”, la cui efficacia sul campo di battaglia è testimoniata da diversi episodi storici. Il long bow era ricavato da un unico pezzo di legno, solitamente di tasso, con una lunghezza che variava con l’altezza del suo possessore ed era pari all’incirca all’apertura delle braccia.
La gloriosa storia dell’arco deve il suo inarrestabile declino all’avvento delle armi da fuoco: archi e frecce scompaiono definitivamente dalla scena bellica verso la fine del 1600 cedendo il passo ad archibugi e bombarde.
 
Una possibilità alternativa al degrado e al deserto esistenziale
Nella visione moderna dello sport, i contenuti educativi e formativi che costituiscono il fondamento principale di qualsiasi attività propriamente ginnica, finalizzata a uno sviluppo equilibrato interiore oltre che fisico, hanno gradualmente perso importanza fino a risultare praticamente sconosciuti ai più. Nel momento in cui la motivazione principale nello sport diventa il successo o il risultato pratico, si aprono le porte all’esasperazione tecnologica o, in modo similare, a una mitomane esaltazione delle capacità condizionali (forza, resistenza ecc). In altri termini, la ricerca maniacale della prestazione e la perdita dei valori più propriamente umani conduce facilmente a un degrado, che diventa anche vuoto interiore e spirituale.
Tutto ciò appare evidente anche a coloro che sono dotati di scarsa sensibilità nel momento in cui si considera la diffusione della pratica del doping – ovvero l’uso (o abuso) di sostanze chimiche o medicinali con lo scopo di aumentare artificialmente il rendimento fisico e le prestazioni dell’atleta. Il doping, che è ormai ampiamente diffuso non solo nello sport professionistico ma anche in quello dilettantistico e amatoriale, mette in evidenza il miraggio di un successo a ogni costo: nel momento in cui l’unico fine è il risultato pratico, in una società malata come quella attuale, tutti i mezzi “diventano” leciti…
Oltre al doping, il concetto del “power”, evidentemente di moda in questo momento storico, ben evidenzia la proiezione mentale verso gli aspetti connessi alla sola realizzazione esteriore.
Nella vita contemporanea, dunque, la tecnologia ha preso, in genere, prepotentemente il sopravvento sull’agire umano, che inevitabilmente diventa del tutto secondario rispetto agli attrezzi in continua evoluzione, via via più precisi, raffinati e potenti. E’ come se l’uomo uscisse di scena, almeno in parte, rinunciando a un’azione da vivere intensamente, in modo completo.
Gli archi non sono sfuggiti allo sviluppo tecnologico: carrucole, mirini e stabilizzatori sempre più sofisticati aumentano incredibilmente la prestazione, che può diventare il principale obiettivo del tiro, a discapito di un più importante miglioramento delle qualità umane. In altre parole, l’estrema specializzazione richiesta da una visione dell’attività sportiva unicamente legata al risultato pratico e alla prestazione rende l’uomo sempre più simile alle macchine che egli stesso ha inventato per “progredire”: l’atleta diventa simile a una macchina senz’anima che rincorre il miraggio del successo. Laddove invece l’attrezzatura è meno efficiente e il fisico meno “specializzato”, si rende necessario il coinvolgimento di altre capacità: acquistano quindi valore elementi come la sensibilità, l’intelligenza, la coordinazione, la valutazione di ciò che è giusto o sbagliato, favorendo uno sviluppo più completo e armonico sia della mente che del corpo.
Valutando la delicata questione relativa alle attività realmente formative per l’essere umano, il punto di partenza e, allo stesso tempo, di arrivo sta proprio nella comprensione che è più facile lavorare sull’uomo e sulla sua formazione, nel momento in cui il ruolo della tecnologia o della muscolazione risulta essere inferiore, o al massimo paritaria, rispetto all’azione propriamente umana.
 
Il tiro tradizionale nel mondo moderno
Il tiro tradizionale con l’arco si pratica generalmente con gli archi storici, con il long bow e con il ricurvo. In questo tipo di archi l’uomo deve gestire in toto l’attrezzo utilizzato per colpire il bersaglio senza l’uso del mirino e degli stabilizzatori. Con il tiro tradizionale oggi è possibile riscoprire alcuni contenuti essenziali per la formazione di un uomo non omologato alla filosifia degenere della società contemporanea. Un primo aspetto che appare evidente già nel momento in cui si scocca la prima freccia, riguarda la difficoltà di coordinare in un’azione ben precisa il bersaglio, l’arco, la freccia e l’arciere. Sono ben noti i valori che le capacità coordinative e tecniche hanno ai fini della formazione, non solo quella inerente l’aspetto strettamente fisico, ma anche e soprattutto relativa a un ambito più generale e completo dell’essere. E’ sufficiente ricordare di come l’intelligenza umana risulti essere molto più connessa alla qualità e alla capacità, piuttosto che agli aspetti quantitativi e materiali, per comprendere a fondo l’importanza di praticare attività in cui gli elementi tecnici e coordinativi risultino predominanti.
Non è soltanto questione di cosa fare,
non sono migliore se faccio una cosa al posto di un’altra,
tutto dipende da come faccio quella cosa
Il primo obiettivo di un arciere che voglia intraprendere la via del tiro tradizionale consiste nell’imparare con grande precisione il movimento necessario per tirare correttamente la freccia. Migliorando con la pratica il gesto tecnico, ci si accorgerà poi di quanto sia importante imparare a gestire l’attenzione mentale. Già nel VI secolo avanti Cristo, Platone indica chiaramente il processo interiore che permette di condurre verso l’alto l’anima umana, dal mondo della generazione a quello dell’essere. La chiave consiste nell’individuare gli oggetti e le discipline che invitano “l’intellezione a indagare”, attraverso un processo nel quale l’anima si trova a gestire due sensazioni opposte,. In pratica, si tratta di coordinare elementi contrastanti, attraverso il “confronto dei contrari”. Nel momento in cui tiriamo la freccia, è possibile operare questo procedimento interiore dividendo in due l’attenzione; da un lato si indirizza la concentrazione verso il bersaglio che si vuole colpire e dall’altro la si mantiene ferma, nel corpo, in particolare la si pone nel gesto che eseguiamo tirando la freccia.
Senza un adeguato allenamento, la mente umana tende a una iper attività caotica: i pensieri, che in genere si susseguono velocemente e casualmente, influiscono negativamente sul gesto tecnico, provocando una deviazione più o meno marcata nella traiettoria della freccia.
Talvolta, è come se la mente volesse imbrigliare e sottomettere tutto ciò che è al di fuori di se stessa, ostacolando il libero funzionamento di tutti le componenti, nel caso specifico, l’arco, la freccia e l’arciere. La capacità di chetare il pensiero, di stabilizzarlo, è il punto di partenza per un coinvolgimento corretto della mente nell’azione del tiro.
 
Il non fare
Al tiro con l’arco si adattano molti contenuti propri del principio taoista, espresso nei termini “wu-wei” (niente fare).
La mancanza di equilibrio nell’azione, con il predominio della fase attiva (yang) rispetto a quella passiva (yin), porta generalmente l’uomo a un errore tipico nel gesto tecnico e atletico, che consiste in una tendenza a eseguire movimenti eccessivi, esagerati o inutili, al punto tale da generare errori e forzature. La corretta azione prevede invece un equilibrio tra yin e yang; certamente bisogna agire, ma si tratta di agire senza eccessi, eseguendo solo i movimenti strettamente necessari.
Nel tiro con l’arco si tratta di muovere il corpo con l’unico scopo di far lavorare l’arco nel modo in cui esso stesso deve lavorare. Sembra molto semplice, ma non lo è: la più piccola imperfezione influisce sul volo della freccia. L’impegno necessario, nel tiro tradizionale, per l’addestramento alla corretta azione non può essere paragonato a quello super specializzato richiesto – per esempio – da un moderno compound con il mirino e con lo sgancio meccanico: questo attrezzo, così tanto sofisticato e tecnologico, predomina sull’azione dell’uomo e tende a sostituirsi ad esso nella ricerca della precisione.
Il momento chiave del tiro riguarda il rilascio, cioè l’istante in cui la mano che tiene la corda deve essere aperta per consentire all’arco di imprimere forza alla freccia lungo la direzione corretta; per eseguire opportunamente il rilascio sono determinanti i ruoli dei muscoli della schiena e delle spalle che, essendo coinvolti adeguatamente, permettono di non interferire con il volo della freccia, evitando di deviare la traiettoria della stessa.
Debolezze umane e ostacoli alla conoscenza:
se la freccia colpisce il bersaglio il merito è dell’arciere,
se la freccia non colpisce il bersaglio la colpa è della freccia
Il tiro con l’arco può evidenziare alcuni miserevoli aspetti dell’animo umano. Esiste una forte tendenza nell’uomo moderno, che non persegue una via tesa al miglioramento interiore, a prendersi i meriti di ciò che accade per caso e non assumersi la responsabilità di ciò che fa, soprattutto quando il risultato dell’azione non è adeguato alle aspettative. Nel tiro con l’arco non ci sono scuse, la freccia va dove la si tira, non dove la si vorrebbe mandare. Semplicemente e inevitabilmente.
Il sistema migliore per non generare fantasie e conoscere il livello di precisione che abbiamo raggiunto nel tiro, consiste nel valutare le frecce tirate, escludendo sia quelle più vicine al bersaglio sia quelle più lontane: se, ad esempio, tiriamo tre frecce, il nostro livello è indicato dalla freccia intermedia, quella cioè che rispetto al bersaglio non è né la più vicina né la più lontana
 
Mirare o non mirare: fantasticherie nel tiro tradizionale
Per il fatto di non usare il mirino, tanti arcieri hanno romanzato eccessivamente su un presunto “istinto” che consente all’arciere di scagliare la freccia nel momento giusto e di colpire il bersaglio. In realtà si tratta di pura fantasticheria: l’azione del mirare non necessariamente implica un mirino sofisticato. L’esaltazione del presunto “istinto” può derivare dal fatto di ignorare la dinamica precisa del tiro e del volo della freccia; questa vola eseguendo una parabola, il che sta a significare che più il bersaglio è lontano e più la parabola dovrà essere ampia, ovvero la freccia dovrà essere scagliata più in alto per poterlo colpire, mentre più il bersaglio è vicino, più la parabola tenderà a una retta e la direzione del tiro si abbasserà.
Allo stesso modo di quando si lancia un sasso, per poter tirare correttamente con l’arco bisogna pertanto valutare anche la distanza del bersaglio e la parabola della freccia, oltre a curare il gesto vero e proprio del tiro. In altri casi, sono degli arcieri molto allenati a esaltare “quell’istinto” che porterebbe a colpire “misteriosamente” il bersaglio, mentre è invece la grande frequenza degli allenamenti a favorire l’individuazione del corretto alzo della freccia in relazione alla distanza dal bersaglio. In altri termini, quando si è particolarmente abituati a valutare le distanze, si riesce a regolare l’alzo in modo “automatico”, eseguendo un tiro solo apparentemente “istintivo”, cioè non mirato.
 
L’arco e la caccia
Quanto indicato a proposito dell’equilibrio tra l’azione umana e la tecnologia, così come tra le capacità coordinative e quelle condizionali, è particolarmente valido nel caso della caccia. Un cacciatore che non si preoccupi di trovare un equilibrio tra il mezzo che usa e l’animale che caccia non dovrebbe essere considerato tale. Si pensi alle stragi di bisonti fatte dai “visi pallidi” e dalle loro armi da fuoco; questi uomini potevano essere qualsiasi cosa, certamente erano assassini di animali, mercanti o ubriaconi ma non certo dei cacciatori. Se per ridurre il divario tra cacciatore e animale esiste l’idea di utilizzare un solo colpo di fucile, nel caso in cui si utilizzi l’arco evidentemente il divario si colma del tutto, o almeno si riduce considerevolmente. L’esperienza della caccia con l’arco proietta l’uomo in una diversa dimensione, permettendo di ripercorrere esperienze che sono state fondamentali nella storia dell’uomo stesso.
In realtà la caccia diventa quasi secondaria rispetto al contesto più generale di una complessa azione umana che precede la cattura della preda: lettura delle tracce, sapersi muovere senza fare rumore, capacità di attendere e di esercitare l’arte dell’agguato, confronto con alcuni aspetti sopiti nella vita ordinaria come l’intuito, l’aumento della percezione, la paura, il freddo …
Una tale esperienza favorisce la comprensione dell’importanza dell’azione umana a prescindere dal risultato pratico che si vuole ottenere e delinea un possibile percorso teso alla conoscenza dei limiti o, meglio, del fallimento della cultura materialista dell’apparire, caratterizzata dal vuoto di valori e dal degrado, ormai facilmente riconoscibili nella società contemporanea.
Lupo Sorridente