Ritorno alla foresta

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(Heliodromos)

Non si trova solo all’esterno, ma anche all’interno dell’uomo, o almeno di colui che osa attraversarla. In effetti non è né buona, né malvagia: semplicemente è. Probabilmente reagisce in modo diverso a seconda di come il suo esistere venga o meno rispettato

Nietzsche – studiando il mondo greco – ritenne di aver scoperto come nell’essere umano fossero presenti, allo stesso tempo, due impulsi vitali apparentemente contrapposti: l’apollineo e il dionisiaco. Il primo è legato ad Apollo, dio dell’armonia e dell’equilibrio. L’impulso apollineo è uno slancio verso la bellezza estetizzata, che sul piano artistico trova la sua piena espressione nelle arti figurative, e in particolare nella scultura. Plasticamente è la città, l’Acropoli.

Accanto all’apollineo c’è il dionisiaco, corrispondente all’ebbrezza che spinge a immergersi senza freni nel caos della vita e della natura e che, sul piano artistico, trova espressione nella musica.

È appunto la natura arcaica, la foresta.

Se volessimo cercare una rappresentazione storica di questo confronto/conflitto potremmo pensare alla distruzione delle Legioni romane nel 9 d.C. in Germania.

La foresta di Teutoburgo – dove il barritus (il grido di guerra) dei Germani perde ogni connotazione umana – finisce per inghiottire gli uomini di Varo: il muschio e l’erica crescono sulle armi e sulle aquile cadute a terra.

Sei anni dopo la strage, il generale Germanico si inoltra nella fitta foresta. In quel luogo vengono trovati i resti di due accampamenti romani. Uno è un castrum in grado di contenere tre legioni; l’altro – nulla più di un fossato poco profondo – un pugno di uomini. E lì, nell’accampamento più piccolo, biancheggiano ancora, sparse o a mucchi, le ossa di uomini e cavalli; si vedono teschi inchiodati ai tronchi degli alberi; nei dintorni si ergono lugubri altari destinati ai sacrifici umani. Un legionario indica a Germanico il luogo dove il comandante di quegli sfortunati legionari fu dapprima ferito e poi si tolse la vita; un altro, la piccola altura usata da Arminio per schernire Roma e le sue insegne. I legionari raccolgono quelle ossa senza sapere se siano di un amico, di un parente, di un conoscente o di un nemico e le interrano in piccole buche. Alzano un tumulo commemorativo. Profondamente turbato, Germanico depone la prima zolla di terra. Quel luogo “tetro alla vista e cupo alla memoria” è appunto la Selva di Teutoburgo.

Un’opera letteraria che ha reso drammaticamente questa tensione è certamente Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Nelle sue pagine la foresta è la grande protagonista; si potrebbe anche dire che pervade i suoi “invasori” fin nel profondo dell’anima: “Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i primordi del mondo, quando la vegetazione ricopriva tumultuosa la terra e i grandi alberi regnavano sovrani”.

Dentro di noi

La foresta non è più solo all’esterno, ma all’interno dell’uomo, o almeno di colui che osa attraversarla. E in effetti la foresta in sé non è buona, né malvagia: essa semplicemente è. Probabilmente reagisce in modo diverso a seconda di come il suo “esistere” venga o meno rispettato: “Al di là della palizzata la foresta s’ergeva spettrale nel chiarore lunare, e attraverso l’agitazione indistinta, attraverso i fievoli suoni di quel miserabile recinto, il silenzio della terra vi giungeva dritto al cuore – col suo mistero, la sua grandezza, la stupefacente realtà della sua recondita vita”.

Scrutando nel cuore della foresta, rimaniamo affascinati dal suo silenzio, quasi ipnotizzati dal suo essere impenetrabile; rispettiamo i suoi tempi ancestrali, la sua grandezza, il suo mistero. Anche perché nel mondo moderno (in cui prevarrebbe l’apollineo) esiste costantemente il pericolo dell’alienazione, fino all’endemica diffusione delle malattie mentali (in primis la depressione, che sarebbe “curabile” proprio con un ritorno alla natura). Di fatto questa è la trama di alcune delle opere più significative di Hesse, da “Il lupo della steppa” a “La natura ci parla”: “Gli alberi sono sempre stati per me i più persuasivi predicatori. Li adoro quando stanno in popolazioni e famiglie, nei boschi e nei boschetti”.

Ma i due poli sono sempre destinati a rimanere distanti e contrapposti? Per Nietzsche, l’equilibrio fu raggiunto nella Tragedia greca, da lui considerata il culmine di quel mondo: l’uomo greco presocratico, allora, rappresenterebbe meglio di ogni altro tutto ciò, perché sarebbe stato in grado di raggiungere la felicità attraverso l’equilibrio tra la sua parte apollinea (eleganza) e quella dionisiaca (ebbrezza). E nella nostra contemporaneità? Forse questo equilibrio possiamo trovarlo nel Giappone. Prendiamo le pagine di Daisetsu Teitarō Suzuki (storico delle religioni e filosofo giapponese, divulgatore del Buddhismo Mahāyāna, e in particolare del Buddhismo Zen) che ci parla dell’intimo amore del popolo del Sol Levante per la natura. Un amore che scopriamo nei meravigliosi giardini e parchi che “fioriscono” un po’ ovunque, armoniosamente, anche nel cuore più audace delle grandi metropoli. Una via, forse, per tutti i popoli che vogliono trovare un diverso modo di conquistare il proprio futuro. Perché come ci ricorda il grande storico delle religioni, Campbell: “Credo sia stato Cicerone a dire che, quando entriamo in un grande bosco avvertiamo la presenza di una divinità. Ci sono boschi sacri ovunque. Credo che questa sensazione della presenza della creazione sia un sentimento fondamentale dell’uomo”.