Rigenerazione Evola | Frammenti di una poetica evoliana delle vette (seconda parte)

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Tratto da RigenerazionEvola


Seconda puntata dedicata a quella che abbiamo ribattezzato poetica evoliana delle vette, nascosta tra la rigidità formale della prosa degli svariati articoli dedicati da Julius Evola alla montagna ed ai suoi significati superiori; una poetica non legata alla mera retorica letteraria, ma asciutta, rivelatrice, iperbolica ma composta, sorprendente ma non ridondante, che, riemergendo dall’esperienza poetica giovanile del barone, riesce, talvolta anche con lampeggiamenti dell’anima in stile haiku giapponese, con pochi, efficaci colpi di penna, a trasportare il lettore in vetta, facendogli quasi vivere quelle esperienze trasfiguranti che solo la montagna riesce a trasmettere. Rinviamo all’ampia introduzione alla prima parte di questo filone per approfondire contenuti e finalità di questo piccolo ma originale progetto editoriale.

Oggi proponiamo altri due componimenti ricavati dal passaggio piano dal regime della prosa a quello della poesia. Nel primo, estratto dall’articolo “Verso il deserto bianco”, Evola descriveva la sua esperienza nella valdostana Valle del Lys o di Gressoney, ai piedi del Monte Rosa, nel luglio 1928, sui meravigliosi ghiacciai di quella zona. Fa una certa impressione pensare che proprio lì le ceneri di Evola sarebbero state tradotte, per esservi conservate, quarantasei anni dopo: a tale riguardo, segnaliamo fin d’ora che proprio su questo argomento vi proporremo tra breve una nostra esclusiva. Nell’articolo “Ghiacci”, del 1933, Evola descrisse invece le sue esperienze su tre delle più famose montagne tirolesi: sul versante austriaco del Weisskugel, la “Palla Bianca”, la più alta cima delle Alpi Venoste (m. 3.736); sull’Ortles, la cima più elevata del gruppo Ortles-Cevedale e dell’intero Trentino-Alto Adige (m. 3.905); infine sul celebre Grossglockner, il “grande campanaro”, la cima più alta dell’Austria, con i suoi 3.798 metri. Oggi, in particolare, proponiamo da questo articolo l’estratto relativo all’avventura sul Weisskugel, sul ghiacciaio che il barone ribattezzò la “Valle della Dannazione”. Buona lettura.

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di Julius Evola

Le sorgenti del Lys nella Valle di Gressoney (1) (cliccare per ingrandire)

Valle di Gressoney

Valle di Gressoney.
Chiara valle,
valle leale che il Lys irrora,
potando seco il brivido delle nevi eterne
Prati (2) di smalto, abetaie silenti,
indolenze di ozii e di idilli aerei fra baite e pascoli,
in seno all’immobilità di questa duplice catena
[nera e dura delle prime alpi.
Oltre La Trinité, la valle si allarga
ed il cielo si fa vasto come una corrente e un corale,
mentre in fondo appare ora la cortina dei ghiacci
là dove non vi sono più che sentieri,
là dove la vegetazione si insterilisce
[contro il chiuso regno delle rocce e dei macigni,
e il fremito delle acque diviene rombo,
e l’aria si sottilizza e si esalta,
ecco che tu le hai innanzi,
le avanguardie del bianco Iddio:
Plateau du Lys.
È l’inizio del ghiacciaio.
È uno spettacolo improvviso e non dimenticabile:
si direbbe che la terra stessa si sia squarciata da dentro
per far prorompere una selva di aspre cuspidi bianche,
e blocchi su blocchi
in una grandiosità caotica e primordiale
che per una magia invisibile
si è congelata in equilibri silenti incombenti nella valle.
In basso, rombando,
come da antro dalle trasparenze boreali,
la corrente del Lys ne scaturisce, impetuosa.
Più in alto,
la dinamica dei ghiacci squarciati ed accumulati è risolta:
è una distesa compatta,
striata soltanto dai crepacci e dalle morene.
L’ente di ghiaccio si distende dall’alto del Rosa
come una creatura tentacolare, poliartica
in fondo, lo schieramento delle cime,
la Vincent, la Dufour, i due Lyskamm,
poi il Felik, infine il Castor
un mondo di riverberi e di azzurro,
di serenità siderale.
Tu quasi entri in un diverso stato di coscienza.
L’occhio si deterge per vastità senza limiti,
il sangue stesso respira l’aria delle nevi,
l’animo oblia le febbri della mente e del cuore degli uomini.
In certi istanti,
si direbbe quasi che il tempo sia sospeso,
che il contatto con uno stato intemporale,
come con qualcosa di più semplice e di più immediato
di tutto ciò che è semplice e immediato,
sia avvenuto:
nella grandezza immobile, liberata e priva di ombra dei meriggi
nei silenzi abissali delle notti stellari,
quando giù le caligini danno color di sogno e di mito
[alle valli e alle vette emergenti
e su per i ghiacci trasmuta una chiarità immateriale
che sembra venire da dentro la terra

(estratto da “Verso il deserto bianco”, ne “Il lavoro d’Italia”, 16.9.1928)

Versante orientale del Lyskamm (3)

 

I ghiacci e le fratture della “Valle della Dannazione”, al cospetto del Weisskugel (4)

La Valle della Dannazione

Weiss Kugel,
discesa per il versante austriaco
una strana natura fece apparizione:
un mare di ghiaccio,
una corrente solidificata di ghiaccio,
mostruosa, quasi piana,
non bianca ma bigia,
di un bigio semisplendente come piombo,
distesa interminabilmente fra due costoni
non di terra o di rupi,
ma di macigni,
di scaglie di roccia, di sabbia, qui nere, là rossastre, là livide.
E un silenzio mortale, una solitudine desertica,
una assenza integrale di ogni specie di vita,
di animazione, di pluritonalità.
Unico, e uguale, un sotterraneo scorrere di acque.
La Valle della Dannazione:
questa natura sembra recare in sé qualcosa di maledetto,
che non sarà rimosso per l’eternità.
È come se queste rocce fossero state fulminate,
spezzate e precipitate giù da altezze,
per giacer cupe senza più speranze.
È come se questa immensa corrente di ghiaccio
[una volta fosse stata vita,
ed ora fosse divenuta sincope grigia,
monotonia senza nome,
chiarezza spenta in plumbea solidità.
Interminabilità, quasi perennità.
È ben lungo tempo che camminiamo sul tetro ghiaccio,
spiando un termine all’orizzonte,
e sempre di nuovo ci si ripresenta ancora,
uguale, inesorabile, senza variazioni,
la stessa natura fra le due coste di roccia maledetta.
Le forze qua e là vacillano
ma non vi è che andare ancora avanti
per questa Valle della Dannazione,
prima che la sera scenda
È fra le ultime luci,
semiebbri per la fatica e la ricerca,
che il ghiaccio al fine termina,
generando da sotto una grande corrente di acqua giallastra e turbinosa
[che cerca via e sfogo fra macigni e detriti morenici terminali.
Infine, in alto sopra una lastra,
il primo e unico segno di cosa umana:
una facciata lineare,
con un misto fra stile bavarese e stile moderno
Edgar Allan Poe:
la Casa Usher (5), quella della rovina
ma questa è l’ultima suggestione.
Qui è lo Hochjoch-Hospiz:
l’esperienza della Valle della Dannazione scende
lentamente
nella sub-coscienza

(estratto da “Ghiacci”, ne “Il Corriere Padano”, 6.9.1933, 
e successive ripubblicazioni)

L’Hochjochhospiz, la cui cupa apparizione alla fine della traversata per la “Valle della Dannazione” richiamò alla mente di Evola la spettrale Casa Usher del racconto di Edgar Allan Poe (6)