Cruscanti di Andrea Marcigliano

78

Guarda un po’ chi scende in campo contro il politically correct linguistico… Nientepopodimeno che la, antica e gloriosa, Accademia della Crusca. Che, dopo lungo sonno, si sveglia e dice a chiare lettere che, nella lingua italiana, ci sono i generi. Maschile e femminile. E che usare la schwa (ə), quella specie di “e” rovesciata, per indicare un genere indistinto, non è corretto. Punto.
Quindi tribunali, uffici pubblici, scuole e quant’altro devono attenersi alla regola. Alla faccia degli zeloti delle nuove mode linguistiche. Punto e a capo.
Potrebbe sembrare una notizia di ben poca, anzi nessuna rilevanza. Soprattutto per i molti, moltissimi, che non sanno di questa Accademia praticamente nulla. E che considerano la crusca solo un alimento da mettere nel latte… salutare per chi soffre di stipsi…
E invece la Crusca è istituzione antica. Che nacque da una allegra brigata di buontemponi che, nella Firenze di fine ‘500, si riunivano a mangiare, bere e discutere giocosamente di questioni linguistiche. Letterati, poeti, giuristi… tra loro l’Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, uno dei migliori novellieri nostri. Erede del Boccaccio. Il Bastiano de’ Rossi, detto l’Inferrigno, critico feroce delle scelte linguistiche di Torquato Tasso, difensore strenuo della lingua fiorentina del ‘300. E compilatore del primo vocabolario della Crusca. E soprattutto il nobile Leonardo Salviati, l’Infarinato. Che spinse la Crusca a diventare ben più di un gruppo di amici dediti alle polemiche linguistiche e alla satira. E ne fece il baluardo della lingua italiana allora nascente.
Lingua letteraria e viva insieme. Ché i cruscanti hanno sempre difeso l’idea che dal parlato emergono parole e costrutti destinati a fecondare la lingua letteraria. In modo da impedire che questa si sclerotizzi. E muoia.
E tuttavia hanno anche sempre osteggiato la sua corruzione. Con troppi apporti stranieri. Perché la lingua è identità di un popolo. Quanto e forse più della terra che abita. Perché, come scrisse Emile Cioran, in fin dei conti si abita una lingua, prima ancora che una terra.
Così, nel finire del ‘700, quando, per influenza dell’illuminismo, la lingua italiana si andava infranciosando e impoverendo, lingua da gazzettieri priva di valore letterario in sé (si vedano gli scritti di Pietro Verri, e anche del Beccaria) l’abate Antonio Cesari, cruscante, difese la nostra tradizione. E scrisse quel gioiello di meditazione sulla lingua che è Delle eleganze della Commedia di Dante. Che andrebbe fatto studiare nelle scuole… se nelle scuole ancora si studiasse.
Vabbè, si dirà… roba da filologi. Da topi di biblioteca. Il mondo va avanti…
E invece no. Perché la lingua è importante. Fondamentale. L’eccesso di americanismi oggi in voga – contro i quali, sempre la Crusca, più volte si è pronunciata – è il segno di un colonialismo culturale sempre più profondo. Di una perdita di identità e, si potrebbe dire, di indipendenza. Che, poi, si riflette in tutti i campi. Anche, e soprattutto, nelle scelte politiche.
Ma la questione del “genere” è più importante ancora. Introdurre nell’uso pubblico e comune la schwa (ə) significa negare a priori le differenze fondamentali. Quella basilare. Tra principio maschile e femminile. Lo Yin e lo Yang del Tao. Presente, da sempre, in tutte le culture.
Dio, in tutte le tradizioni principali, ha creato il cosmo, ovvero l’ordine universale, attraverso la Parola. Il Logos. Vak nella tradizione vedica. Leggete il fondamentale saggio Vak. La parola primordiale di Pio Filippani Ronconi. È… illuminante.
Ora, se il Cosmo è stato tratto dal Caos primordiale attraverso la Parola, ciò implica che le parole devono distinguere le cose.
Distinguere i colori, le forme… i generi. Perché il Caos è l’indistinto. Dove tutto esiste in nuce, certo. Ma niente ha un senso.
Oggi, viviamo una sorta di ubriacatura per il mito dell’uguaglianza. Che dalla sfera del diritto, viene arbitrariamente estesa ad altre, con le quali nulla ha a che vedere.
E si giunge così a cercare di negare la natura. A falsificare la realtà in nome di un’astrazione ideologica. Astrazione, per altro, non nobile. Perché trae origine non dal platonico mondo delle idee, ma da pulsioni istintive e desideri soggettivi. Dalle parti infere della natura umana. Che, proprio in quanto infere, anelano all’indistinto. Vorrebbero trascinarci, nuovamente, in una dimensione caotica.
La battaglia delle parole è il punto di partenza. Se accetti che la lingua divenga sempre più imprecisa, informe, accetti un mondo senza forma. Che è, poi, classicamente, il mondo dei demoni. Ove non vi è più bene e male. Bello e brutto.
Ove non vi è più maschile e femminile.
Ben venga, dunque, questo risveglio dei Cruscanti, ancorché tardivo… come chiudere le stalle dopo che i buoi già sono fuggiti…
Per lo meno loro si sono ricordati di cosa sono. E da dove provengano.
Mi viene da pensare, però, che il Salviati e il Grazzini non si sarebbero limitati ad una nota di precisazione linguistica.
Si sarebbero scatenati in una virulenta polemica. Scagliando feroci satire politicamente scorrette.
Ma erano altri tempi. E altre tempre di letterati.