Il morire moderno non è un bel morire: potrebbe essere lo slogan per un ritorno ad una morte a misura d’uomo. Tralasciamo il fatto che oggi non c’è niente, proprio niente, per cui valga la pena di morire. Consideriamo, più semplicemente, proprio il modo assurdo in cui è vissuta la fine dell’esperienza terrena da parte della stragrande maggioranza degli esseri umani.
Spesso nell’alienante e fredda solitudine delle sale di rianimazione si consuma l’ultimo, definitivo, e forse più catastrofico crimine contro l’essere umano. L’accanirsi nell’allungare a tutti i costi la permanenza in vita di esseri già avviati per l’ultimo viaggio – spremendo il moribondo come un limone, fino all’ultima energia, può servire solo alle statistiche ipocritamente trionfalistiche sulla maggiore durata della vita umana, non certo al diretto interessato.
Si direbbe quasi che si voglia fare spendere in questo mondo fino all’ultimo “possedimento” fisico, psichico e spirituale ad un essere già trasformato in larva prima ancora di avventurarsi ne l post- mortem. Tutto ciò perché la vita è concepita non più come un trampolino di lancio per ricongiungersi al Principio, ma come una trappola in cui consumare ogni energia e consapevolezza: elementi questi indispensabili per far assolvere all’uomo l’unico compito degno per cui è venuto al mondo.