
di Americo Mascherucci
Nonostante i tentativi revisionisti degli storici dalla penna rossa, sono in pochi a non riconoscere oggi al regime fascista il merito di aver combattuto radicalmente e vinto la mafia. Benito Mussolini, in seguito ad un viaggio in Sicilia, dopo essersi reso conto di come a dettare legge sull’isola, e a determinare ogni decisione, fossero i capi dell’onorata società, sentì come un dovere morale la necessità di ripristinare l’autorità dello Stato. Inviò a Palermo il prefetto Cesare Mori che si era già distinto nella lotta alla mafia quale commissario di pubblica sicurezza, concedendogli carta bianca e poteri illimitati. Mori chiese ed ottenne la nomina a procuratore generale di Palermo di Luigi Giampietro magistrato integerrimo, risoluto ed energico, per avere un alleato in grado di trasferire sul piano giudiziario l’azione politica.
Il binomio Mori-Giampietro si rivelerà determinante nel combattere e sradicare il fenomeno mafioso in Sicilia. Mori, forte dei poteri straordinari che il Duce gli aveva concesso, attuò una durissima repressione contro la malavita, con il ricorso a metodi intimidatori e violenti, assediando la città di Gangi, roccaforte dei boss mafiosi, rastrellando con l’aiuto di poliziotti e carabinieri il paese casa per casa ed usando donne e bambini come ostaggi. Grazie alla durezza dei sistemi utilizzati, Mori arrestava i mafiosi che poi Giampietro trascinava in tribunale facendogli infliggere pesanti condanne e smontando così quel clima di impunità che aveva costituito linfa vitale al rafforzamento della mafia. Molti finirono all’ergastolo, altri al confino, altri ancora preferirono emigrare in America per sfuggire alla giustizia. Giampietro
agì come braccio operativo di Mori, cioè dello Stato. Certo, la magistratura dell’epoca, quella creata all’indomani dell’Unità d’Italia, era molto diversa dalla magistratura odierna che, di fatto, è completamente autonoma dal potere esecutivo. I magistrati erano sottoposti al ministro della Giustizia, competente a decidere anche sulle loro carriere.
Lungi da noi invocare un ritorno al passato o un ridimensionamento dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria, garanzia di uguaglianza di ogni cittadino. Ciò che ci interessa è focalizzare l’attenzione sull’alleanza strategica che il prefetto Mori ed il procuratore Giampietro siglarono per ripristinare la legalità in Sicilia. Ve l’immaginate oggi un prefetto come Mori che volesse combattere la criminalità con il ricorso a metodi efficaci ma extralegali? Verrebbe incriminato da qualche procuratore della Repubblica deciso a non concedere alcuna deroga al rispetto tassativo delle procedure di legge, anche se magari certi sconfinamenti si fossero rivelati indispensabili a garantire la legalità. Basti pensare agli agenti dei servizi segreti finiti sotto processo e condannati per il sequestro dell’imam Abu Omar. Poco importa che quel rapimento rientrasse nell’ambito di un’operazione contro il terrorismo, volta a scongiurare attentati di matrice islamica in Italia. Per non parlare dei tanti poliziotti chiamati a garantire l’ordine pubblico nelle città in occasione di manifestazioni dei centri sociali e finiti sotto processo per aver usato il pugno duro.
Il procuratore Giampietro, come detto, non solo sostenne Mori nell’azione di repressione della malavita condividendo i suoi metodi extralegali, ma si adoperò perché agli arresti seguissero le condanne. Questa solida alleanza tuttavia non ha prodotto solo luci ma anche qualche ombra. Il prefetto ed il procuratore infatti dichiararono guerra alla politica corrotta,
quella cioè che faceva affari con la mafia. Giampietro in particolare indirizzò le sue indagini sull’area radicale del fascismo (vista con diffidenza dallo stesso Mussolini) incriminando per collusione il federale di Palermo Alfredo Cucco che di conseguenza fu rimosso dal suo incarico e radiato dal partito fascista. Al processo d’appello però Cucco riuscì a
smontare l’impianto accusatorio di Giampietro convincendo i giudici sull’esistenza di un complotto contro di lui orchestrato da Mori in accordo con ambienti del fascio siciliano a lui ostili. Sarebbe stato proprio il prefetto di ferro, come sostennero in dibattimento gli avvocati della difesa, a pilotare le indagini di Giampietro contro Cucco.
Il procuratore fu quindi dipinto come un persecutore politico e l’assoluzione di Cucco si rivelò uno scandalo talmente deflagrante da convincere Mussolini a rimuovere Mori, nominandolo senatore. Tuttavia l’azione del duo Mori-Giampietro contro la mafia resta impeccabile, così come indiscutibili sono i risultati ed i meriti conseguiti. La piovra tornò a diradare i suoi tentacoli solo dopo la caduta del fascismo e dopo che i picciotti siciliani, in accordo con quelli emigrati in America, organizzarono lo sbarco degli angloamericani.
Una figura quella di Giampietro certamente non paragonabile a quella del procuratore Antonio Ingroia reduce dal fallimento dell’operazione elettorale chiamata «Rivoluzione Civile». Se è vero che in passato i magistrati non erano sufficientemente autonomi dai governi,è forse accettabile oggi il comportamento di quei magistrati che scendono in politica dopo aver incriminato esponenti politici della parte avversa?
Ed è normale che un sostituto procuratore che ha condotto inchieste delicatissime sui rapporti fra mafia e politica, senza dimettersi dalla magistratura, si vada a candidare addirittura leader di una coalizione?
È forse opportuno un simile comportamento in un Paese dove sono in molti a ritenere la magistratura fortemente sbilanciata a sinistra, diffidando della sua imparzialità?
Solo una cosa si può condividere del procuratore Ingroia: la sua ostinazione nel voler fare piena luce sulla presunta trattativa Stato-mafia che ci sarebbe stata all’indomani delle stragi di Capaci e Via d’Amelio fra istituzioni e uomini della criminalità e che avrebbe portato un ammorbidimento del carcere duro per i boss mafiosi. Una vicenda che deve essere chiarita fino in fondo ma che probabilmente, anche grazie all’ormai certificata partigianeria di Ingroia, resterà avvolta nel mistero.
Certo, l’eroismo di Falcone e Borsellino e dei tanti magistrati che hanno pagato con la vita il loro impegno nella lotta alla mafia resta indiscutibile, anche perché il loro operato non è stato mai macchiato da sospetti di faziosità. Anzi, quelli come l’attuale sindaco di Palermo Leoluca Orlando che mossero pesanti accuse contro Falcone mettendo in dubbio la
sua correttezza, lo fecero proprio perché il giudice morto a Capaci aveva l’abitudine di procedere nelle indagini con i piedi di piombo soppesando rigorosamente le dichiarazioni dei pentiti, ad iniziare da quelli alla Ciancimmino.
Per quanto riguarda Borsellino forse sarebbe il primo oggi a riconoscere la grandezza di un magistrato come Luigi Giampietro, non solo perché era un uomo di destra, ma soprattutto perché sapeva andare oltre la retorica resistenziale tipica dei «partigiani della costituzione».
(Il Borghese, Aprile 2013)