Orientamenti di fine ciclo – seconda parte

539

Gli operai dell’undicesima ora”

Nel precedente articolo abbiamo esposto le problematiche e le criticità connesse alle vie esoteriche ed essoteriche al divino, in particolare nell’epoca contemporanea. Dinnanzi alla situazione di stallo che coinvolge anche le strutture essoteriche, giunte ormai ad un elevato grado di decadimento, ci si chiedeva quali strade fossero percorribili.

Cerchiamo dunque di trovare qualche risposta, tenendo sempre come punto di riferimento le fonti, i testi, gli interpreti della Tradizione.

Il punto di partenza è costituito da un passo tratto dal Vangelo di Matteo (20, 1-16), noto come quello degli “operai dell’undicesima ora”, ripreso da Gaston Georgel nella sua opera Le quattro età dell’umanità – introduzione alla concezione ciclica della storia, (che si fregia anche di un saggio introduttivo del grande antropologo Mario Polia), già citato nella prima parte.

Questo è testo del passo evangelico:

Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: ‘Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò’. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: ‘Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?’ Gli risposero: ‘Perché nessuno ci ha presi a giornata’. Ed egli disse loro: ‘Andate anche voi nella mia vigna’. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: ‘Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi’. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: ‘Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo’. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: ‘Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vai; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto ho dato a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi’ ”.

E’ da notare innanzitutto che il nome della parabola deriva dal fatto che nel testo originale della medesima si parla di prima ora, terza ora, sesta ora, nona ora e undicesima ora. Al tempo di Gesù la prima ora corrispondeva al levar del sole, la sesta ora corrispondeva circa a mezzogiorno e l’undicesima ora corrispondeva alle nostre cinque del pomeriggio.

Occorre poi fare un’ulteriore fondamentale precisazione preliminare: quando si citano i vangeli cd. “canonici”, è sempre necessario chiarire che l’esegesi piattamente letterale e spesso molto romanzata che ormai è in voga (facilitata anche da semplicistiche traduzioni dagli originali in greco) ne ha svilito i contenuti simbolici ed interni che ancora rimangono, sia pure nel testo conosciuto (a sua volta probabilmente rimaneggiato e modificato in alcuni passaggi, forse a carattere gnostico-metafisico), conformemente d’altronde al doppio piano di lettura che ogni scrittura sacra regolare possiede: l’uno più esteriore, letterale (essoterico), funzionale all’opera di proselitismo ed alla conversione delle masse nell’ambito di un culto specifico, in cui possono emergere le maggiori differenze tra le diverse religioni regolari; l’altro più interno (esoterico), volto a condurre alla scoperta, nei limiti in cui ciò sia possibile, di realtà metafisiche e cosmologiche più profonde ed imperscrutabili, e che riduce progressivamente le differenze tra le singole forme religiose, riconducendole alla comune matrice.

Ebbene, il passo in questione, al di là delle interpretazioni più esteriori che sono facilmente intuibili e che pure hanno la loro funzione, su livelli più elementari, nasconde almeno un significato più interno, che definire esoterico in senso stretto sarebbe probabilmente eccessivo, ma che comunque si situa su un gradino piuttosto elevato della scala essoterica.

Questo significato ce lo spiega proprio Gaston Georgel, che, come vedremo, si riallaccia anche alla tradizione islamica ed induista onde mantenere un inquadramento tradizionalmente unitario:

In effetti, dal punto di vista ciclico è evidente che gli uomini del Kali Yuga, avvicinandosi la fine del ciclo ed essendo l’ora del salario (cioè del Giudizio) ormai prossima, si trovano nella stessa posizione facilitata di quei mietitori dell’undicesima ora che ricevettero la stessa quantità di denaro di coloro che avevano «sopportato tutto il peso del giorno e del caldo», quando venne il momento del pagamento. Era stato richiesto molto poco agli operai dell’undicesima ora; parallelamente è detto che sarà domandato molto poco agli uomini degli ultimi tempi[1].

Nella parabola, dunque, secondo questa lettura, la giornata di lavoro è l’equivalente dell’attuale ciclo cosmico ed i lavoratori delle varie ore sono le generazioni umane che si sono succedute nel corso delle ére: la generazione odierna è quella degli “operai dell’undicesima ora”.

Vivere nell’epoca oscura dell’umanità, è vero, espone a tutta una serie di problemi anche e soprattutto esistenziali, costringe l’individuo che abbia mantenuto una forma mentis compatibile con le leggi immutabili della Tradizione a cercare di vivere inevitabilmente quale uomo “differenziato”, per citare Evola, con l’obbligo, verso sé stesso e verso il divino cui deve rendere testimonianza, di mantenersi in piedi, impassibile, fra le rovine soprattutto spirituali che lo circondano, accettando di assistere ad un disfacimento che lo sfiora ma che non deve intaccarlo nel profondo.

Ma vivere in quest’éra offre, dunque, anche delle possibilità importanti. Oltre che proseguire un’opera incessante di mantenimento e di trasmissione dei sacri principi della Tradizione, affinché gli stessi non vadano dispersi, oltre che affrontare quest’epoca come una prova, un’occasione per testare sé stessi e forgiare il proprio carattere e la propria interiorità, l’uomo che rifiuta la decadenza contemporanea e cerca di tenere in alto cuore e spirito può e deve ancora tentare di ancorarsi alle strutture essoteriche rimaste, per raggiungere la “salvezza” (secondo l’ottica soteriologica cristiana), la partecipazione indiretta al Logos, l’innalzamento continuo di sé, l’ “intuizione”, la “percezione” delle dimensioni supreme dell’Essere, pur senza potervisi ricongiungere tentando le ormai pericolose e scoordinate vie dell’autorealizzazione.

Per fare questo, secondo l’interpretazione della parabola evangelica di cui sopra, agli uomini dell’epoca odierna è chiesto, anche in via semplicemente fideistico/devozionale, molto meno di quanto si potesse pretendere in epoche più “centrate” della storia umana, poiché si tiene conto del contesto particolarmente gravoso in cui essi sono chiamati a vivere, contesto in cui di ogni attività umana si è manifestata compiutamente la forma invertita, che sempre più spesso altera e sovrasta, fino talora a cancellare del tutto, ogni reminiscenza della forma regolare.

Georgel, come detto, aggiunge poi importanti riferimenti tratti da altre manifestazioni della Tradizione per confermare l’interpretazione evangelica ed il relativo principio enucleato: ad esempio, ci ricorda come il Profeta Maometto insegnasse che “All’inizio dell’Islam colui che omette un decimo della legge è dannato; ma negli ultimi tempi colui che ne compirà un decimo sarà salvato[2].

Allo stesso modo, l’autore cita diversi passi tratti dai Bhâgavata Purana, dove ci mostra come la Tradizione induista fosse ancor più esplicita al riguardo: “Gli errori commessi dagli uomini nell’Età Kali, per quanto abbiamo origine nelle cose, nei luoghi o in loro stessi, sono interamente cancellati da Bhagavat, il supremo Purusha, quando egli risiede nel cuore … l’Età Kali, (benché sia un) abisso di vizi, possiede un vantaggio unico (ma) prezioso: è sufficiente celebrare le lodi di Krishna affinché, liberi da ogni legame, ci si possa riunire all’Essere Supremo … ciò che s’ottiene nell’Età Krita meditando su Vishnu, nell’Età Trêta offrendogli dei doni e dei sacrifici, nell’età Dvâparâ votandosi al suo culto, lo si ottiene nell’Età Kali celebrando le sue lodi, a lui, Hari (…) Le anime elette che conoscono le virtù (dell’Età Kali) e che si nutrono di esse, onorano questa età, in cui è sufficiente celebrare le lodi di Krishna per ottenere la soddisfazione di tutti i propri desideri” (L XII, cap. III, S1 51, 52, 55). E ancora: “Durante l’Età Krita e le (due) seguenti, o re, gli esseri s’auguravano di rivivere nell’Era Kali, poiché lì il Marayana diverrà il loro asilo supremo” (ibidem, cap. XI, S1 36-38)[3].

Per quanto possa apparire assurdo, quindi, l’età oscura attuale, malgrado tutte le sue degenerazioni, o forse proprio a causa di esse, presenta una certa “superiorità” rispetto alle età anteriori del ciclo cosmico, poiché presenta un vantaggio che non è solo “l’aver visto riaprirsi le porte del Paradiso” con l’incarnazione e la Passione di Cristo dopo la Caduta (“La vita di Cristo e la sua Passione cronologicamente si situano nella seconda metà del Kali-Yuga, all’epoca della razza di ferro, ed è evidente che non potevano situarsi che in una epoca, in cui «gli uomini non sanno quello che fanno»”, osserva ancora Georgel[4], confermando la funzione devozionale e salvifica del Cristianesimo essoterico, connaturata alla struttura psichica ed alla dimensione ontologica dell’uomo di fine ciclo, secondo quanto si osservava nel precedente articolo).  

Infatti, con l’Età Kali, soprattutto in questa sua parte finale, trovando espressione anche le possibilità più inferiori dello stato umano, si assiste ad una sorta di “totalizzazione”, di completamento e conseguente esaurimento della manifestazione di tutte le possibilità connesse all’esperienza umana. Tutto ciò che poteva trovare espressione l’ha trovato: dal livello più elevato al più infimo, di cui quindi l’umanità ha preso direttamente coscienza. In questo si concretizza la “totalità” del ciclo attuale, in quanto è evidente che “il tutto è più della parte”, e tramite tale totalità si realizza la “congiunzione degli estremi”.

Di ciò parla anche René Guénon, trattando della cd. “maschera popolare[5], cioè della dissimulazione degli iniziati, soprattutto dei gradi più elevati, in mezzo al popolo; dissimulazione che avviene adottando il linguaggio, il costume ed i modi d’agire del medesimo. Ciò avveniva ed avviene non solo al fine di passare inosservati tra i profani, ma anche e soprattutto per altre ragioni: perché al popolo (e non alla cd. “classe media”, imbevuta di quel “buon senso” e di quell’ “ordinarietà” che la rendono perfetto specchio del razionalismo e del materialismo moderni), finché non subisce una deviazione indotta da influenze sovversive, “è sempre affidata la conservazione delle verità d’ordine esoterico che altrimenti rischierebbero di perdersi, verità che esso è incapace di comprendere, sicuramente, ma che tuttavia trasmette non meno fedelmente, anche se a tal fine dovessero essere rivestite, pure loro, da una maschera più o meno grossolana; ed è questa in definitiva l’origine reale e la vera ragione d’essere d’ogni ‘folklore’, e segnatamente dei cosiddetti ‘racconti popolari’ ”. Ciò perché il popolo, non agendo spontaneamente e non producendo nulla da sé stesso, ma essendo come un “serbatoio” da cui tutto può essere tratto, il meglio come il peggio, seguendo la natura delle influenze che si eserciteranno su di lui, costituisce un’entità che porta in sé delle possibilità indistinte e latenti, che sono sempre suscettibili di svilupparsi se incontrano condizioni favorevoli.

Ma vi è ancora dell’altro”, spiega Guénon, “che peraltro completa la spiegazione di quel che abbiamo appena detto e gli dà tutto il suo significato: ossia che l’élite, per il fatto stesso che il popolo è il suo estremo opposto, trova veramente in esso il suo riflesso più diretto, come in tutte le cose il punto più alto si riflette direttamente nel punto più basso e non in uno qualunque dei punti intermedi. È vero, si tratta di un riflesso oscuro e invertito, come lo è il corpo in rapporto allo spirito, ma che nondimeno offre la possibilità d’un “raddrizzamento”, paragonabile a quello che si produce alla fine di un ciclo: solo quando il movimento discendente ha raggiunto il suo termine, cioè il punto più basso, tutte le cose possono essere ricondotte immediatamente al punto più alto per iniziare un nuovo ciclo; e per questo è esatto dire che “gli estremi si toccano” o piuttosto si congiungono”.

Questa “coincidentia oppositorum” si ritrova pertanto proprio nella fase finale dell’ultima éra di ogni ciclo cosmico: manifestatesi tutte le possibilità insite all’esperienza umana, il più si riflette nel meno, il superiore nell’inferiore, la qualità nella quantità, l’assoluto nel relativo: ogni espressione si riverbera nel suo opposto. L’Unità si riflette quindi nella molteplicità totalmente dispiegatasi, e si è pertanto pronti per la riassunzione di ogni manifestazione nell’Unità suprema del non più manifestato, nell’Unità superiore dell’Essere, e quindi per l’inizio di un nuovo ciclo cosmico.

E’ stato peraltro notato come questa “dinamica immobile” dell’Essere, che si “auto-pone”, per poi “manifestarsi” moltiplicandosi e frammentandosi e che infine si riassume nell’Unità, sia proprio quella su cui si fondano la sequenza triadica cristiana del Padre (il Logos, l’Uno) che si “auto-pone”, dell’Incarnazione del Figlio (che si “separa” dall’Unità) e della Sua Crocifissione (il “ritorno” al Padre), il dogma stesso della SS. Trinità (Dio Uno e Trino), nonché, ad esempio, le triadi Iside-Osiride-Horus nella religione egizia e Brahma-Visnu-Shiva in quella induista. Tutte espressioni particolarmente significative di questa dialettica triadica, peraltro già a suo tempo studiata dai neoplatonici e che costituisce il fondamento dell’idealismo hegeliano nella sua migliore interpretazione, in quanto in esso vi è l’idea del superamento definitivo della scissione dualistica fra Infinito e Finito, e quindi l’affermazione dell’unità dei contrari in Dio stesso. Ma si tratta di questioni particolarmente complesse che non possono essere affrontate in questa sede.

Alla luce di quanto esposto, pertanto, sappiamo che all’umanità di quest’epoca è oggettivamente “chiesto” meno di quanto fosse chiesto in altre epoche, e che nonostante il livello di decadenza cui si è giunti, sono aperte possibilità insospettabili per gli uomini e le donne che vogliano restare saldamente in piedi nel nome della Tradizione. D’altronde anche Julius Evola, in Rivolta contro il mondo moderno, ci confermava questo importante concetto: “Dinanzi alla visione dell’età del ferro Esiodo esclamava: “Che non vi fossi mai nato!”. Ma Esiodo, in fondo, non era che uno spirito pelasgico, ignaro di una più alta vocazione. Per altre nature vale una diversa verità, vale l’insegnamento poco sopra accennato, noto anche all’Oriente, cioè che se l’età ultima, il kali-yuga, è un’età di terribili distruzioni, coloro che vi appaiono e malgrado tutto vi si tengono in piedi, possono conseguire frutti non facilmente accessibili agli uomini di altre età”.

Per rimanere nell’ambio essoterico di cui ci occupiamo, scelta dunque una via, nonostante l’alto grado di contaminazione cui può essere esposta al giorno d’oggi, tale via può e deve essere seguita, sia pure tenendo conto della situazione, recuperando quanto può essere recuperato, seguendone i dettami cum grano salis, e quindi con la dovuta attenzione necessitata dall’epoca odierna.

Prendiamo ad esempio la via cristiana, quella che più facilmente ci si trova innanzi. Dinnanzi alla decadenza della Chiesa Cattolica, si può e si deve guardare oltre, scavalcare con lo sguardo l’orizzonte oscuro odierno per scorgere la luce che si nasconde dietro alle nubi: con un sia pure faticoso lavoro di certosina e paziente ricerca, in via individuale o all’interno di ristrette comunità operative si possono ritrovare e comprendere la dottrina, i fondamenti ed i precetti del messaggio cristico, leggerli ed interpretarli nell’ottica più generale della Tradizione unitaria e primordiale, riscoprire le verità sepolte e sconosciute del calendario liturgico e delle sue ricorrenze fondamentali, sforzarsi di individuare i tratti salienti della decadenza anche esteriore delle forme nel loro logorio storico, e cercare di aggirarla e quindi di vincerla, scoprendo le modalità ancora parzialmente incontaminate o dove comunque i processi corrosivi abbiano causato meno danni, onde ritrovare e riprendere un’impostazione anche devozionale a più “alta frequenza”.

Al riguardo, due ambiti potrebbero fungere da stimolo iniziale per provare a riaprire un sentiero fra le selve fitte della decadenza, che poi occorrerebbe percorrere passo passo per una lenta riscoperta delle Verità occultatesi in modo solo apparentemente irreparabile: quello liturgico-rituale e quello della preghiera. Entreremo nel dettaglio nel prossimo intervento.

Paolo G.

Note:


[1] G. Georgel, Le quattro età dell’umanità – introduzione alla concezione ciclica della storia, Il Cerchio, 1982, pp. 164-65.

[2] G. Georgel, cit., p. 165.

[3] G. Georgel, cit., p. 165.

[4] G. Georgel, cit., p. 166.

[5] R. Guénon, La maschera popolare, in Initiation et Réalisation spirituelle, Éditions Traditionnelles, Paris, 1952, cap. XXVIII (rintracciabile su https://letteraespirito.wordpress.com/rene-guenon-la-maschera-popolare/).