Tradizione, Formazione, Rivoluzione

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Come restare in piedi tra le rovine del XXI secolo
a cura della Comunità Militante RAIDO
I TEMPI ULTIMI
Lontano da qualsivoglia forma di pessimismo o di sindrome da apocalisse imminente, il dato inequivocabile è che viviamo in un’epoca di profonda decadenza e dissoluzione, sotto ogni punto di vista: politico, economico, sociale, etico e morale.
Uno stato di crisi acuta che pare non avere sbocchi ed alimenta un clima già di per sé asfittico che ogni giorno, come una cappa, incombe sopra le nostre teste.
Se l’uomo oggi è nella condizione di non vedere più il sole, ciò non rappresenta solo un fatto di natura meteorologica derivante dagli sconvolgimenti naturali in atto, ma è anche e soprattutto il riflesso del livello spirituale della civiltà attuale, incapace di riconoscere il bello, il giusto, il vero. L’uomo non vede più il sole perché è assuefatto e abbrutito dal profitto e dall’individualismo, nella costante rincorsa per appagare i propri bisogni materiali, in un clima di competizione e contrapposizione sociale.
Fedele al motto “il tempo è denaro”, la vita è catalizzata dal fattore economico e materiale e dal cosiddetto produci/consuma/crepa, in cui ogni rapporto sociale è una relazione di tipo contrattuale: un dare e un avere alla ricerca dell’egoistico profitto, regolato ed imposto dalle leggi dell’economia.
Oggi, in termini di valori, non conta più “chi si è”, la dignità, l’identità e le qualità di una persona, ma ciò “che si ha”, ossia un rispettabile conto in banca, l’essere alla moda, lo smartphone o il tablet ultimo modello, determinando una frenetica ansia nell’apparire sempre felici e vincenti. Di fatto, è il trionfo grasso dell’avere di contro all’essere.
Lo stato dell’uomo contemporaneo, atrofizzato rispetto ad ogni prospettiva di tipo superiore e spirituale, è definito da Renè Guénon come solidificato, evidenziando l’aspetto quantitativo e materialistico tipico dei corpi solidi ed appesantiti.
Una tale miseria morale è il riflesso di uno sfaldamento proprio al sistema democratico nonché di una precisa e studiata strategia che vuole l’uomo irrequieto, insicuro, agitato e intento a rincorrere problemi e necessità, in uno stato di passività in cui la mente è “altrove” e la maggior parte delle azioni sono compiute in uno stato di “assenza” a se stessi, vampirizzati da un insieme di automatismi che rendono incapaci di reagire alla corrente di degrado.
Dice Evola: «Sono aspirato dai miei pensieri, dai miei ricordi, dai miei desideri, dalle mie suggestioni, dalla bistecca che mangio, dalla sigaretta che fumo, dall’amore che faccio, dal bel tempo, dalla pioggia, da questo albero, da questa vettura che passa, da questo libro. Così si è l’ombra di se stessi.»
COME REAGIRE?
La domanda allora sorge spontanea. Se sinteticamente questo è il quadro, come reagire?
È importante non pensare che il superamento di tanta degenerazione possa avvenire solo attraverso un miglioramento o un cambiamento del sistema. Noi non siamo dei riformisti, noi non vogliamo cambiare o migliorare l’ordinamento sociale e politico, poiché la nostra alternativa al sistema, del quale auspichiamo il completo superamento, è totale.
Ma perché questo possa avere un senso e non ridursi ad un vuoto slogan è importante chiarire un primo punto: il problema principale è di natura interna, ovvero una rinascita ed un cambiamento saranno possibili allorché si determinerà una rigenerazione spirituale, etica e morale dell’uomo.
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Enunciare formule, elaborare programmi, convocare tavoli o riunioni organizzative, è un aspetto secondario e successivo alla formazione del militante.
«Non abbiamo bisogno di programmi, ma di uomini nuovi», ripeteva C.Z. Codreanu e ancora, come chiarisce Julius Evola, l’uomo di milizia sa che «la misura di ciò che può esser ancora salvato dipende dall’esistenza o meno, di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per essere esempi, non andando incontro alla demagogia e al materialismo delle masse, ma per ridestare forme diverse di sensibilità e di interesse».
La vera battaglia, quindi, non è contro le ideologie, ma contro se stessi, contro la parte oscura che ci portiamo dentro e che va vinta e messa a tacere. “In ciò consiste la vera, la grande rivoluzione da fare. Rivoluzione spirituale. O fallimento del secolo. La salvezza del mondo risiede nella volontà delle anime che credono”. Questo è quanto ci insegna Leon Degrelle.
Pertanto, per coloro che sentono estraneo questo mondo decadente e non si vogliono arrendere, una possibilità c’è ancora, una strada che conduca verso il sole è ancora tracciata, nonostante e al di là di ogni eclissi totale o parziale che sia…
E’ il sentiero della Tradizione, ovvero la via dell’affermazione dei Principi Universali, Sacri e spirituali che, in ragione della loro origine e natura trascendente, sono eterni, atemporali, oggettivi, immutabili.
La Verità, la Giustizia, l’Onore, la Lealtà, la Fedeltà, il Sacrificio, il Coraggio, la Gerarchia, sono l’essenza della Tradizione, al di fuori della quale vi è il mondo democratico, la società dell’eguaglianza, del materialismo e dell’individualismo. Una battaglia, quindi, che va condotta in nome di valori che non assumono un profilo politico, ma PRE-POLITICO, in quanto sono punti cardinali che stanno prima di tutto.
Tuttavia, assumere la Tradizione come riferimento non rappresenta un esercizio dialettico ed intellettualoide, non è il risultato di una elaborazione teorica o ideologica, non è il rinchiudersi in una torre d’avorio, ma è la volontà di aderire ad una realtà più profonda che coinvolge tutto l’essere umano.
La Tradizione, infatti, non è leggere libri e fare conferenze per auto-compiacersi, riempirsi la bocca di parole che si ripetono a memoria, sentirsi parte di qualcosa per moda o semplice amicizia. La Tradizione è sforzarsi ogni giorno di vivere in maniera retta, in armonia e in coerenza con la virtù, incamminarsi verso la conoscenza attraverso un lavoro di rettifica e formazione interiore.
Ricordiamo l’esortazione di Julius Evola presente in “Orientamenti”: «Il problema primo, base di ogni altro, è di carattere interno: rialzarsi, risorgere interiormente, darsi una forma, creare in se stessi un ordine e una drittura». Eccola la vera battaglia di cui parlavamo poc’anzi, ecco il vero sforzo rivoluzionario da metter in atto.
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Badate bene, questa non è enfasi ma è un richiamo, a nostro modo indispensabile, ad un’etica della responsabilità, all’affermazione di un senso del dovere libero da retorica, un eroismo senza gloria e senza trionfi, medaglie o grandi gesti, senza mania di originalità e di protagonismo.
È l’esortazione a lavorare ad un progetto di rigenerazione le cui basi per un efficace cambiamento devono coinvolgere l’uomo. E’ la necessità di avere in vista, prima di tutto, il COME si fa una determinata cosa piuttosto che il QUANTO, ovvero privilegiare l’aspetto qualitativo ed aristocratico dell’azione rispetto a quello quantitativo e democratico dell’agitazione.
Questa è “formazione”, ovvero mettere ordine nella propria vita, questa è “rettificazione”, ovvero disciplina e ascesi in conformità alla Tradizione, ad una norma spirituale che regola l’esistenza. Una legge che unisce la persona alla propria comunità, al popolo, alla stirpe. Un destino che lega chi combatte oggi a chi ha combattuto prima, a quegli uomini e quelle donne che nella storia hanno sacrificato se stessi per l’Idea, per l’onore, per la fedeltà.
RETTIFICAZIONE e FORMAZIONE sono le parole d’ordine, in un continuo tendere a ricollegarsi ad una forza proveniente dall’alto, attraverso un’azione che è “catartica” e “anagogica”, allo stesso tempo.
 IL METODO
E per fare questo è necessario orientarsi, avere METODO, poiché è facile illudersi, ritenersi già differenziati, quando non si è capaci neanche di rispettare un appuntamento o di mantenere la parola data.
Ogni via, ogni percorso, richiede una disciplina da imparare e mettere in pratica, come nel caso di un’arte marziale, ad esempio. E quando si parla di principi e di valori, ovvero di spiritualità, il fai da te anarchico, l’irrequietezza del tutto e subito, le mode affascinanti, servono solo ad appagare il proprio ego in fugaci ed estemporanee adesioni sentimentali, senza portare da nessuna parte.
Un metodo quindi, che presuppone umiltà o, se preferite, quella semplicità romana per cui il primo passo per un cammino corretto, è saper guardare dentro se stessi e riconoscere in quale misura e in quali circostanze il proprio comportamento è incoerente rispetto ai principi a cui si dice di riferirsi.
Da una parte, bisogna analizzare e sconfiggere le debolezze, dall’altra fortificare le qualità e capacità, abbattendo gli ostacoli tra ciò che si dice di essere e ciò che si è realmente.
È inutile recitare il ruolo dei “duri e puri”, senza essere disposti ad un arduo lavoro di rettifica interiore, in cui il sincero esame di coscienza evidenzi i propri limiti e vizi, di fronte ai quali non servono a nulla le scorciatoie e le furbizie.
Questa prima e sincera analisi serve a liberarsi dalle “maschere” che ognuno indossa ogni giorno, mettendo a nudo i piccoli compromessi con la propria vigliaccheria e pigrizia, per favorire un clima adatto affinché si affermino le virtù tradizionali.
Un metodo che ha nell’azione militante il proprio campo di verifica.
L’azione nei confronti dell’Idea per cui è richiesta impersonalità ed abnegazione, dove è necessario compiere ciò che deve esser fatto con ferma imparzialità e senza lamentarsi per ciò che “potrebbe essere” o che “piacerebbe che fosse”.
L’azione impersonale è, come ci insegna Evola, un’azione che non guarda ai frutti, è un’agire «senza che sia determinante la prospettiva del successo e dell’insuccesso, della vittoria o della sconfitta, del guadagno o della perdita, e nemmeno quella del piacere e del dolore, dell’approvazione e della disapprovazione altrui».
Il che non è un agire in maniera cieca, arida e priva stimoli, ma è un agire senza pensare al piacere o al dolore come i motori di una eventuale azione. E’ un’azione dotata di una felicità diversa da quella legata al momentaneo appagamento del desiderio o delle passioni: è una felicità speciale, quasi eroica, che fa sentire leggeri, come se in quel momento si venisse sfiorati da un soffio divino.
E’ il dare se stessi con impegno, ma senza annullamenti, senza entusiasmi o drammi nel caso un’attività vada o non vada a buon fine. E’ la tensione positiva di chi, con il sorriso sulle labbra e la gioia nel cuore, per destino compie ciò che più costa con lealtà, di chi non evita la vita dura e perfino rischiosa.
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Leon Dégrelle sottolinea che «gli uomini felici sono coloro che si donano, gli insoddisfatti coloro che soffocano l’esistenza in un perpetuo tirasi indietro, chiedendosi continuamente che cosa stanno per perdere. Virtù, grandezza, felicità tutto ruota attorno al donarsi. Donarsi completamente, sempre. Fare ciò che si deve: generosamente, con il massimo impegno, anche se l’oggetto del dovere è senza grandezza apparente».
La nostra felicità, quindi, si plasma nel sacrifico, nel faticoso lavoro di comandare se stessi al fine di conoscere la vera libertà, la libertà dal bisogno e dalla necessità, la libertà che non si manifesta con una sterile ribellione contro ogni forma d’autorità, ma nella possibilità di affermare in maniera sovrana: COSÌ SONO, COSÌ VOGLIO ESSERE.
Un metodo che ha nell’azione per così dire esistenziale un’ulteriore campo di verifica.
Le varie prove della vita sono occasioni per conoscersi e verificare la propria qualificazione, il terreno dove misurarsi continuamente. In ciò riteniamo vi sia un punto cruciale, sul quale è necessario fare molta attenzione: richiamarsi a determinati valori non è come andare in palestra tre volte a settimana, ma è un esercizio costante, uno sforzo inesorabile, un tendere verso il miglioramento di se stessi, ogni giorno ad ogni ora.
Non esistono momenti in cui si è uomini d’onore ed altri in cui si è dei perfetti borghesi, non esistono interlocutori verso i quali ci si comporta con stile e altri verso i quali si dà il peggio di sé. Nella vita ordinaria, in ogni aspetto dell’esistenza (lavoro, famiglia, studio, ecc.), va risvegliato lo spirito guerriero di una lotta per l’affermazione dell’Ordine contro il disordine, e come ci ricorda Degrelle: «Una sola cosa conta: avere una vita valida, affinare la propria anima, avere cura di essa in ogni momento, sorvegliarne le debolezze ed esaltarne le tensioni. Compiuti questi doveri, che significato ha morire a trenta o a cento anni».
Immaginiamo l’arco teso con la freccia pronta per essere scoccata: ecco, a questo ci stiamo riferendo.
Un metodo che trova nella forma comunitaria la sua naturale applicazione. All’interno della comunità, infatti, il militante è educato alla disciplina ed al sacrificio, alla responsabilità attraverso l’assunzione di compiti da portare avanti con scrupolo e con la forza della propria iniziativa.
Non solo, ma la comunità è il luogo virtuoso nel quale si instaura un rapporto leale di cameratismo, un rapporto di fratellanza e di lotta, che non è sentimentalismo o semplice amicizia, ma solidarietà lucida e priva di interesse, un confronto leale e sincero che non assume il carattere confessionale o da procedimento psicoanalitico, ma è strumento per cementare il gruppo e offrire ad ogni militante la possibilità di rispecchiarsi coi propri simili, rettificandosi da eventuali sbandamenti.
All’interno della comunità si instaura un rapporto virile che presuppone un’apertura che non è pettegolezzo, un sodalizio di uomini dotati di un comune sentire che vivono in armonia, serenità ed equilibrio.
Un metodo che richiede l’intimo e personale dialogo interiore da parte del militante, il quale medita sull’azione compiuta e da compiere, analizza gli aspetti negativi del suo carattere, riflette in silenzio ed in solitudine sul significato del suo percorso.
E’ un momento indispensabile questo, perché, fermandosi, si ha la possibilità di interiorizzare l’esperienza vissuta attraverso l’impegno esteriore. Ed è un lavoro, attenzione, da compiere attraverso l’imprescindibile sostegno dottrinario, mediante lo studio dei testi tradizionali che, supportati ed a supporto di una corretta azione, determinano l’assimilazione dei contenuti ed una conseguente e tangibile rettificazione dello stile e della visione del mondo e delle cose.
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In questo modo non sarà la testa a riempirsi di nozioni ma il cuore a riempirsi di verità, e non saremo dinnanzi a chi predica formule come fosse un vecchio e moralista trombone, ma di fronte a uomini dagli occhi illuminati, illuminati dal fuoco della consapevolezza che l’azione è orientata dalla conoscenza, l’azione è votata alla conoscenza, l’azione può divenire conoscenza.
Un metodo, in sintesi, che, prima di tutto e prima di ogni altra cosa, vuole combattere il modernismo insito dentro di noi.
Combattere il modernismo sottoforma di individualismo, attraverso la capacità di sacrificarsi per l’Idea.
Combattere il modernismo sottoforma di egoismo, attraverso il solidarismo militante, quello per cui viene prima di tutto l’aiuto ed il sostegno al fratello ferito dalla sventura.
Combattere il modernismo sottoforma di materialismo, attraverso l’affermazione di una visione sacra della vita, reale e integralmente vissuta.
Combattere il modernismo sottoforma di democrazia, attraverso l’affermazione della gerarchia, ovvero la capacità di riconoscere il primato del giusto e del vero in ogni pensiero ed azione che si compie.
Combattere il modernismo sottoforma di agitazione anarchica ed irrequieta, attraverso l’educazione alla disciplina e all’affermazione di un ritmo nella militanza, costante e inesorabile.
Combattere!, combattere!, combattere!
Perché questo è il destino di chi fa una scelta guerriera e non può fare altrimenti, questo è il destino di chi, spesso con presunzione, si arroga il diritto di essere rappresentante e testimone di un mondo fatto di onore e fedeltà, dimenticandosi che questo privilegio va conquistato nei fatti, nei gesti e nella vita, giorno per giorno.
E ci sia consentito di aggiungere che viene da sorridere quando ascoltiamo chi prova ad imbalsamare e a ridurre a semplice parodia la Tradizione, giudicandola un mito incapacitante” passivo e fuori della realtà. Costoro sono incapaci di cogliere l’attualità della Tradizione, di comprendere la possibilità di far rivivere il mito, di attualizzarlo nella realtà quotidiana e nell’ambiente circostante, poiché l’inadeguatezza ad incarnarne i Valori porta a confondere la Tradizione con il tradizionalismo e la staticità, il folklore e il nostalgismo, ed a ridurre i principi ad un arido conformismo, snaturandone la forza vivificatrice.
Qui non si parla di musei o di biblioteche polverose, di masturbazioni mentali o di convegni accademici, qui si vuole affermare un concetto autenticamente rivoluzionario e militante, per cui la Tradizione è vita, è gioia di lottare, è migliorarsi attraverso il sacrificio, è militia super terram, è essere esempio per educare ed informare, è tramandare, diffondere e testimoniare, è la rivoluzione dell’uomo libero che, svincolato dai condizionamenti e dalle mode, rifiuta l’ideale borghese vile e pantofolaio.
E’ la rivoluzione nello e dello spirito che, come insegna Codreanu, è una rivoluzione silenziosa, profonda e poco spettacolare.
Non c’è più tempo per attardarsi in forme nostalgiche e perdute, o alla ricerca di originalità esotiche in cui spesso risultano sospetti certi legami con mondi che per noi dovrebbero essere estranei, come quelli massonici o neospiritualisti.
In una fase di incertezza e di inquietudine come è quella della nostra epoca, è necessario ritrovare, riscoprire, fortificare quelli che per noi sono punti fermi ed indiscutibili.
E’ giunto il tempo delle affermazioni sovrane e delle negazioni assolute, dell’impegno a costruire qualcosa di solido e duraturo, che sia degna testimonianza di chi ci ha preceduto e, allo stesso tempo, speranza ed avvenire per i nostri figli.
E per fare questo, la Tradizione è il punto di riferimento, è la stella polare per edificare una fortezza interiore che sia base per qualsiasi rivoluzione esteriore: poiché, non dimentichiamoci, che solo un uomo sano ed orientato spiritualmente è in grado di informare positivamente la realtà circostante, come una candela capace di illuminare nella notte buia.
Parlavamo poc’anzi di rivoluzione esteriore.
Bene, una rivoluzione esteriore che lontana da forme di spontaneismo sterile, ritiene necessaria la creazione di un fronte comune, un fronte all’interno del quale le varie realtà o unità operanti, indipendentemente dalle collocazioni territoriali e dalle relative specificità, collaborino, si scambino esperienze e qualificazioni, facciano rete, promuovano iniziative atte a diffondere, tramandare e rafforzare una visione del mondo e della vita alternativa a questo sistema, e lo facciano su ogni piano, personale, comunitario, politico, sociale, economico, sportivo, ecc..
Un Fronte che qualcuno prima di noi ha definito della Tradizione e per il quale vogliamo batterci, senza sosta, senza tregua.
Pertanto, TRADIZIONE, FORMAZIONE, RIVOLUZIONE, ovvero un sentiero che si inerpica per la montagna portando con sé sudore e fatica, ma anche la grandezza, la gioia e l’immensità di orizzonti che, man mano che si sale, diventano sempre più vasti.
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Ci avviamo verso la conclusione di questo nostro intervento, ma prima facciamo le ultime considerazioni.
Oltre a ringraziare, e lo faccio a nome di tutta la comunità che rappresento, gli amici che in tutti questi anni ci hanno sostenuto ed anche chi con le proprie critiche ci ha aiutato a crescere, vogliamo rivolgere un pensiero fraterno e sentito a quei fratelli che oggi non sono più. La loro funzione adesso è da un’altra parte e sono certo che da lassù vegliano su di noi e sul nostro operato, fermo restando che è, e sempre sarà, nostro dovere vivificare la loro presenza attraverso una testimonianza attiva, fatta di esempio e di volontà, di opere e non di chiacchiere.
Un pensiero va a Francesco, il nostro guerriero coraggioso, un ragazzo giovane e forte, testardo e pieno di vita, che Iddio ha voluto prematuramente con sé. Se oggi la nostra sede ha assunto la forma che vedete è grazie al suo impegno da homo faber che ha saputo profondere con volontà ed abnegazione.
Un pensiero va a Gaetano, il nostro punto di riferimento, un uomo ed un capo che alle indicazioni chiare e dirette, ha sempre fatto seguire uno stile di vita esemplare ed essenziale. Se oggi siamo qui, è grazie a lui, se oggi siamo presenti con lo spirito di chi vuole andare più avanti ancora, è perché portiamo nel cuore gli insegnamenti ricevuti durante le passeggiate tra i campi di ginestre dell’Etna, durante i confronti e le riflessioni condivise dinnanzi al fuoco scoppiettante del camino.
D’altronde, se Saint Exupery in “Cittadella” ricorda che «preparare l’avvenire significa dare fondamento al presente», noi oggi ribadiamo uno dei significati della Tradizione, ovvero la Tradizione come azione di passaggio e trasmissione di un’eredità, un collegamento tra chi consegna e chi riceve, dove chi riceve ha il dovere di continuare a far vivere, attraverso le sue azioni, l’eredità dei Padri, dove chi riceve ha il dovere di custodire il fuoco e, a sua volta, trasmetterlo alle future generazioni, con l’umiltà di chi sa che la strada è lunga ed il lavoro da compiere è ancora tanto.
E tutto questo non è scontato ma va guadagnato sul campo perché, parafrasando Plutarco, se «gli ateniesi sanno quello che si deve fare, solo gli spartani fanno quello che si deve fare».
Non passerà alba, allora, che non rinnoveremo l’impegno a tenerci in piedi in un mondo di rovine. Non passerà giorno che non ripeteremo a noi stessi: con la fede, il coraggio e l’onore, noi faremo testimonianza al sole, perché così il monarca del mondo vuole.   
Grazie a tutti per essere intervenuti. Ci rivediamo tra vent’anni.
Pro Aris et focis!