Rigenerazione Evola | I teologi dell’ateismo cristiano

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A cura di RigenerazionEvola


Dopo l’articolo “Quo vadis Ecclesia?”, pubblicato originariamente in pieno Concilio Vaticano II, in cui Julius Evola metteva in guardia circa la direzion15e regressiva che la Chiesa Cattolica stava assumendo, proponiamo oggi un altro articolo poco noto del barone, ma fondamentale, che, pubblicato sei anni dopo il precedente, affrontava più in generale, con il titolo “I teologi della morte di Dio” (che riprendeva quello di un’opera di Battista Mondin), il tema della progressiva demitizzazione o demitologizzazione dei Vangeli, vale a dire il tentativo, da parte di determinate correnti, soprattutto, in prima battuta, del mondo cristiano protestante (in particolare quello evangelico) di svuotare di qualunque contenuto spirituale e sovrannaturale l’esperienza di Gesù Cristo in terra, il suo ruolo e la sua funzione.

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Uno dei grimaldelli utilizzati dalle forze sovversive per penetrare a fondo nel mondo cattolico e corromperlo dalle fondamenta, infatti, è stato, nell’ambito delle correnti moderniste, quello dell’alterazione dell’esegesi biblica. In particolare, il Nuovo Testamento è stato sistematicamente ridimensionato, derubricato e degradato al livello di romanzetto a candide tinte sociali e morali. Tutti i riferimenti sovrannaturali contenuti nei Vangeli (ad es.: i miracoli, Satana, i démoni, gli indemoniati, ecc.) sono stati considerati come il frutto della mentalità dell’epoca, avente natura puramente “mitica” nel senso deteriore che il termine ha, purtroppo, assunto nel lessico positivistico e materialistico moderno. Di conseguenza, questi riferimenti, non potendo essere letteralmente espunti dal testo evangelico, sono stati reinterpretati in chiave meramente esemplificativa e assolutamente non realistica, per riportare i Vangeli ad una forma accettabile e comprensibile per l’uomo contemporaneao e la sua struttura psichica.

La demitizzazione avrebbe così posto in evidenza la verità universale dei Vangeli: tramite Cristo, Dio avrebbe agito per il bene dell’umanità; sarebbero così emersi, da tale nouvelle vague dell’esegesi neotestamentaria, unicamente temi sociali, morali, pauperistici, pacifistici, sentimentalistici, e così via. Di lì a “togliere di mezzo” anche Dio dalla “realtà” evangelica, il passo sarebbe stato breve: le porte erano spalancate per la deriva verso un vero e proprio ateismo cristiano di fatto, in cui ogni riferimento ultraterreno, nel contesto di un Cristianesimo ormai laico-sociale, sarebbe stato definitivamente eliminato. Tutto questo avrebbe poi condotto, in breve tempo, allo sviluppo di teologie spurie, quali la “teologia del laicato”, la laburistica sudamericana “teologia della liberazione”(che ha “formato” lo stesso Papa Bergoglio), o la “teologia della secolarizzazione”. E’ impressionante come Evola, nel 1969, con frasi sferzanti ed un’analisi lucidissima quanto impietosa, scrivesse di questo tema anticipando sviluppi ed esiti che sono sotto i nostri occhi, sorprendendosi lui stesso di come il Cristianesimo protestante e, di riflesso, il Cattolicesimo (vero obiettivo finale della manovra sovversiva), stessero deragliando verso una vera e propria “teologia della morte di Dio”. Quanti sacerdoti a tinte arcobaleno, quante omelie ai limiti del parodistico, quante assurde esegesi riduzionistiche delle Sacre Scritture, quante encicliche, dichiarazioni o documenti ufficiali, episcopali e pontificali, ce lo confermano ai giorni d’oggi?

Come negare che tale lento, ma inesorabile processo di svuotamento delle Sacre Scritture di ogni traccia di trascendenza stia giungendo al suo culmine? Il giudizio finale che potete leggere nell’ultimo capoverso dell’articolo di Evola sembra essere stato scritto in questi giorni: quando pensiamo agli ammicamenti delle gerarchie ecclesiastiche e del Papa stesso con ambienti culturali del tutto estranei a qualsiasi tradizione spirituale, con i cosiddetti “atei devoti”, con gli intellettuali di sinistra alla Eugenio Scalfari, e rileggiamo queste considerazioni del barone, ci rendiamo conto di quanto ancora una volta Evola avesse visto lontanissimo, anche nel contesto di una via spirituale, quale quella cristiana, che non era quella più congeniale alla sua natura.

Come ci insegna e ci conferma René Guénon ne l’Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, tutto ciò è, d’altronde, l’inevitabile esito di un processo regressivo connaturato al trascorrere del tempo all’interno di quest’ultima fase cosmica: la religione in senso stretto decade sistematicamente e finisce col degenerare in semplice “moralismo” di matrice filosofico-sociale. Infatti, in concomitanza col ritrarsi di due dei tre elementi che caratterizzano il fenomeno religioso in senso stretto, cioè il dogma (vale a dire la dottrina in cui si traduce la sapienza metafisica su un piano essoterico) e la ritualità, l’unico fattore che rimane, la morale, senza il supporto degli altri due, scade inevitabilmente in “moralismo”, trasformando appunto il singolo fenomeno religioso in mero fenomeno sociale, dispensatore di una catechesi tenue, scontata, banale, “politicamente corretta”. Il Protestantesimo in tutti i suoi infiniti rivoli (quelli più recenti ancor più assurdi del luteranesimo delle origini) ed il Cattolicesimo odierno, ormai totalmente laicizzato, massificato, socializzato e, in sostanza, trasformato in parodia di sé stesso e quindi reso apparentemente del tutto “innocuo” per le forze sovversive, ce lo stanno, purtroppo, confermando.

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di Julius Evola

Tratto da “Il Conciliatore”, giugno 1969

Le analogie e le convergenze delle due pretese civiltà-guida di oggi, quella americana e quella sovietico-comunista, per quel che riguarda la loro azione distruttiva sui valori tradizionali e spirituali di cui fino ad un periodo relativamente recente l’Europa era stata l’esponente, sono state ripetutamente rilevate. Se già nel secolo scorso il Tocqueville, il Burckhardt e lo stesso Stuart Mill avevano segnalato gli effetti livellatori della democrazia, più di recente sono state introdotte le espressioni «coercizione orizzontale» e «coercizione verticale», per designare due forme di una stessa azione: la «coercizione orizzontale» è quella anonima e impersonale che si realizza attraverso il conformismo sociale e tutte le strutture di quello che è stato chiamato il «sistema» delle società industrializzate, tecnocratiche e consumistiche progredite, mentre la «coercizione verticale» è quella esercitata direttamente e apertamente dall’alto, con l’uso della forza, in sistemi totalitari come quelli sovietico-marxisti. Non occorre dire che delle due forme di coercizione, la prima è la più pericolosa perché spesso non è avvertita, la si subisce quasi senza accorgersene, la si accetta in via naturale, mentre la seconda pressione, appunto per essere diretta e brutale, quindi ben percepibile, può ancora dar luogo a reazioni, a un difendersi almeno interiormente. È stato notato però che con lo sviluppo in senso tecnocratico dei Paesi comunisti più progrediti anche questa differenza si riduce grandemente.

«Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini?» Friedrich Nietzsche (La Gaia Scienza)

Ma nelle presenti note vogliamo accennare ad una convergenza fra America e comunismo che riguarda un piano particolare, quello religioso nella sua relazione con la visione generale della vita. È nota la concezione che, in via di principio, il comunismo e propriamente il marxismo-leninismo ha della religione. Essa è l’«oppio del popolo», è uno degli strumenti principali di «alienazione» usati per lo sfruttamento della classe lavoratrice. Dio, la trascendenza, la felicità nell’aldilà e le sanzioni sovraterrene sono tutte finzioni e, nel migliore dei casi, distornano l’umanità dal prendere coscienza di sé e dall’applicarsi alla realizzazione del paradiso terrestre marxista, il quale fa a meno di Dio. Questo è il senso dell’«umanismo integrale» comunista, già preconizzato da personaggi dostojevskiani. Come sua parola d’ordine può valere quella che Nietzsche, però in un contesto assai diverso e poetico, aveva fatto pronunciare al suo Zarathustra: «Dio è morto», ma si può anche dire: «Dio deve morire a che l’uomo viva, a che egli sia veramente tale e s’impegni interamente sulla via del ‘progresso’, della realizzazione del paradiso secolarizzato terreno».

Ebbene, idee analoghe si sono affacciate in America in margine soprattutto al protestantesimo, col cosiddetto «ateismo cristiano», coi «teologi della morte di Dio». Non si tratta di un fenomeno spurio ma di qualcosa che si armonizza perfettamente con l’orientamento essenziale di tutta la civiltà americana, col suo materialismo, col suo pragmatismo, col rilievo dato a ciò che si valuta in termini di efficienza, di produttività, di rendimento, con l’indifferenza nutrita per ogni cultura e interesse superiore non strumentalizzabile, non traducibile in fattori di prosperità fisica, di ricchezza, di successo. Come in regime comunista la religione viene al massimo tollerata a patto che resti una faccenda privata personale, che non tocchi il sistema e le forze operanti del sistema, al pari in America la spiritualità in senso proprio ha solo una esistenza marginale, quasi come un articolo di lusso che certi ambienti possono permettersi ma che non può essere messa allo stesso livello della scienza, della tecnologia e di quanto altro viene arruolato per realizzazioni «immanenti», fisiche, «sociali».

Non è da trascurare l’apporto che il protestantesimo anglosassone e in particolare il calvinismo ha dato a questo rivolgimento generale, fornendo alcune premesse alle stesse tendenze ora accennate, alla «teologia della morte di Dio»Si sa, infatti, che un aspetto fondamentale del protestantesimo è stato la sua separazione del sacro dal profano. Partendo dall’idea della natura irrimediabilmente degradata e decaduta (a causa del peccato originale) dell’essere umano, il protestantesimo ha negato ogni partecipazione effettiva al sovrannaturale (donde l’abolizione della vita monastica e contemplativa, delle strutture sacramentali cattoliche, ecc.). L’uomo può essere solo un essere terreno; gli resta unicamente la fede, come speranza in un atto gratuito e imperscrutabile di Dio, di un Dio inaccessibile, che lo salvi, lo redima. L’accettazione della terrestrità, la «secolarizzazione», è stata dunque un aspetto essenziale del protestantesimo e anzi si può dire, praticamente e socialmente, forse quello più importante. E particolarmente col calvinismo si è affermata l’idea singolare, che il successo terreno è segno di elezione divina, tanto da prendere quasi il posto della sacralizzazione nel senso tradizionale. Soprattutto da Max Weber è stata messa ben in luce tutta la parte che codesta «teologia» ha avuto nello sviluppo del capitalismo e dell’ideale della prosperity specie in America.

Però questo sfondo (o alibi) religioso o pseudo-religioso doveva, nello sviluppo complessivo della società capitalistico-industriale americana, impallidire sempre di più. Dalla dualità sacro-profano doveva prendere vigore soltanto il secondo termine, finché esso ha reagito contro il primo. Da qui, la via che conduce coerentemente fino all’«ateismo cristiano», alla nuova teologia della morte di Dio. I principali esponenti di tale corrente sono protestanti, si possono fare i nomi di Thomas Altizer (autore del libro Il Vangelo dell’ateismo cristiano), di Paul van Buren, di John A. T. Robison, di Harvey Cox (autore del libro The Secular City, la «città secolare» che si sostituisce alla civitas Dei di Agostino); però non mancano, nella scia, elementi cattolici, come Leslie Dewart (¹), a tacere dei «cattolici progressisti» che stanno proliferando anche in Europa in margine ai vari cedimenti antitradizionale proprio al Concilio Vaticano II, i quali propugnano la «secolarizzazione» della loro religione.

Quasi tutte le persone ora citate insegnano in università e colleges americani quali teologi, ed è significativo che le loro idee trovino eco e vengano prese molto sul serio in discussioni perfino accademiche. In realtà, si tratta di un pensiero quanto mai squallido, proprio figlio dei tempi, e naturalmente vi sono assurdità che saltano agli occhi già nella terminologia. Infatti un teologo che si mette a fare l’ateista, cioè che neghi Dio, di rigore non può essere chiamato teologo, dato che «teologia» significa dottrina o discorso su Dio, ossia proprio su ciò che viene negato. Quanto alla «morte di Dio», questa espressione può far colpo solo sullo sprovveduto, perché o non si ammette l’esistenza di Dio fin da principio («un Dio, non è mai esistito»), ma se la si ammette non si può concepire che egli ad un dato momento possa «morire». In realtà, si giuoca con le parole; ciò che propriamente si vuol dire è che è una data concezione di Dio è «morta», che essa ha fatto il suo tempo, che ormai è inoperante e da bandire. Tale sarebbe la concezione tradizionale di Dio come un essere trascendente, sovraterreno, sovrano, capace di interventi soprannaturali, tale da servire come punto di riferimento per conferire un senso superiore alla vita e all’attività dell’uomo. Per l’uomo moderno un tale Dio sarebbe «morto»; non si può più chiedere all’uomo moderno di accettarlo, di credere in lui. Insistere in una religione che lo abbia per centro, significherebbe far sì che presto la religione esca completamente dal mondo moderno. Alcuni di questi nuovi teologi giungono a dire che anzi, oggi, non si dovrebbe più nemmeno parlare di Dio, tanto il termine è irrimediabilmente pregiudicato dal suo significato tradizionale, che va abbandonato; si dovrebbe cercare un termine nuovo.

Rudolf Karl Bultmann (1884-1976), teologo evangelico tedesco, padre della demitologizzazione dei Vangeli. Celebre la sua frase: «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostici dal Nuovo Testamento»

Che resta allora della religione e nel caso specifico, del cristianesimo? La prima istanza riguarda la «smitizzazione». Tutto il precedente sfondo sovrannaturalistico della religione con simboli, prodigi, fatti divini, realtà «celesti», ecc. dovrebbe essere abbandonato. Tutto ciò non sarebbe che «mito», un linguaggio usato per uomini di altri tempi e non valido per l’uomo di oggi. Quanto al cristianesimo, i nuovi atei possono effettivamente dirsi sempre cristiani, perché al teismo essi sostituiscono una «cristolatria». Dio è morto ma resta il Cristo, nella sua umanità: un Cristo «demitizzato», perché «Figlio di Dio» e il resto apparterrebbe al «mito». Si giunge a dire che i precisi riferimenti di Gesù a Dio, al «Padre», al «Signore dei Cieli» debbono essere presi come allegorie appartenenti a quel linguaggio mitico, senza darvi un contenuto reale. Pertanto resterebbe come colui che «vive per gli altri», questa è l’essenza di un cristianesimo purificato e ancora oggi valido. «L’uomo di oggi non può credere a Dio ma può ancora credere a Cristo». Ciò equivale a dire che la religione viene ridotta a servizio sociale, a umanitarismo filantropico. Non significati trascendenti, tali da dare un significato superiore alla vita, non prospettive di immortalità o di «vita eterna», non  una esistenza già qui orientata verso l’alto, ma una religione che deve unicamente servire per assicurare all’uomo un livello più alto, più «umano» e felice dell’esistenza terrena. Fra questi teologi, vi è chi ha messo mano alla dialettica hegeliana, ricalcando la via della cosiddetta  «sinistra hegeliana» (la quale, come è noto, è sboccata nel marxismo) ed ha fantasticato circa un Dio che «muore» per trasmutare nel saeculum, nel mondo, nella storia, e divenire la forza stessa del progresso e dell’evoluzione di «un mondo soltanto mondo», divino in sé stesso, senza più fantasie di «cieli». Questo sarebbe il vero senso della «incarnazione di Dio». Si sarebbe potuto ricorrere, del resto, anche a Teilhard de Chardin, per uno schema cosmologico adatto a quest’ordine di idee.

Qui la convergenza di questo cristianesimo «aggiornato» americano con l’«umanismo integrale» ateo comunista risulta abbastanza evidente. Dobbiamo limitarci a rilevare tale convergenza, senza soffermarci in una critica intrinseca. Noteremo soltanto l’incredibile primitivismo di queste idee. È singolare la deviazione di una critica che, se fosse stata usata nel modo giusto, avrebbe dovuto servire non per negare il Dio della teologia tradizionale e di ogni religione superiore, ma per purificarlo e restituirgli i suoi più alti attributi. Ci viene detto che l’uomo moderno ha capito che deve provvedere a soddisfare lui stesso i suoi bisogni e i suoi desideri invece di rimettersi a Dio; da sé egli si applica a risolvere da sé i suoi veri problemi, che riguarderebbero la miseria, la malattia, la giustizia sociale, la democrazia, la pace, l’eliminazione delle discriminazioni e della guerra, ecc. (è tutto un ben noto, noioso, repertorio). E a tanto egli ha trovato o troverà i mezzi davvero efficaci. Così si finisce col dire che «il progresso ha reso inutile Dio». È un indice chiaro del loro livello intellettuale, il fatto che questi progressisti che liquidano Dio a causa della sua «inutilità» e «inefficienza» nel mondo attuale della scienza e della tecnica danno a Dio la stessa parte che il popolino del sud dà ai santi a cui chiede la «grazia» o che il primitivo dà al suo idolo, che egli, dopo averlo pregato, insulta e perfino castiga quando non lo esaudisce. Ebbene, si sarebbe dovuti andare di là da questa immagine menomata, utilitaria e umanizzata della divinità «soccorritrice» per restituire a Dio proprio i suoi caratteri di trascendenza, da servire non per cose effimere e soltanto umane ma per dare alla vita un significato superiore e una forza di là da felicità e sciagura. Né è detto che questo punto superiore di riferimento «alieni» e stacchi necessariamente dal mondo; tutte le più grandi civiltà tradizionali ci dimostrano che esso ha potuto servire anche per realizzazioni grandiose, adombrate però da qualcosa di più che terreno.

Predica dell’Anticristo di Luca Signorelli (dettaglio da “Predica e fatti dell’Anticristo”, 1499-1502, Cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto)

Non c’è progresso» che valga (e che possa rendere superflua la funzione che, nel suo senso più alto e severo può avere, per un uomo non degradato, una religione), quando si tratta dei problemi più reali, che sono quelli della morte, dell’angoscia esistenziale, degli sconvolgimenti dovuti all’irruzione dell’irrazionale, alle passioni e agli stessi istinti. Credere il contrario, credere che il progresso, la scienza, la tecnocrazia ed anche il Cristo divenuto una specie di assistente sociale integrale, modello di altruismo umanitario, possano risolvere tali problemi, significa attestare, oltre che un primitivismo, una mancanza completa del senso della serietà della vita e della condizione umana.

Come si è accennato, non si può non rilevare che nello stesso ambito del cattolicesimo ufficiale la formula del famoso «aggiornamento» ha favorito posizioni secolaristiche esposte ad analoghe deviazioni. Mentre proprio perché il saeculum, il mondo, oggi si è tuffato freneticamente e ciecamente nell’immanenza, proprio per questo la Chiesa avrebbe dovuto difendere, con rafforzata intransigenza e decisione, il «sovrannaturalismo», tutto ciò che ha un carattere trascendente e veramente sacrale, partendo dai valori della contemplazione e dell’alta ascesi. Invece la preoccupazione di «tenersi al passo», ha portato perfino la supreme gerarchie cattoliche nella direzione opposta, in quella dell’adattamento e dell’assecondamento, con tacitazione di ciò che può «urtare» l’uomo dei nostri tempi e che alcuni cattolici, degni compagni di strada dei cristiani atei di cui si è detto, non si peritano talvolta di stigmatizzare come «residui medievalistici». Quanto a consapevole discesa di livello, può servire anche come esempio il recente orientamento verso l’«ecumenismo» e i «dialoghi», perché, a tale riguardo, la parola d’ordine è questa: per un embrassons-nous, per un incontro e una unità dei cattolici coi non-cattolici e perfino con atei e comunisti, si dovrebbe prescindere dalla dottrina, ci si dovrebbe limitare a quel che gli uni e gli altri hanno in comune non sul piano autenticamente religioso ma su quello della morale come umanitarismo, pacifismo, eguaglianza, fratellanza, socialità, zelo «progressistico» e tutto il resto. Anche qui ci si trova dunque di fronte all’accantonamento della dimensione superiore propria ad ogni religione superiore, ad un rivolgimento secolaristico, perché in ogni religione la stessa morale resta senza una vera giustificazione ove sia priva di un riferimento «sovrannaturalismo», oltremondano.

Così stando le cose, ai teologi della morte di Dio si deve riconoscere almeno il merito di essere andati fino in fondo in questa direzione, sino alle sue ultime tanto logiche quanto degradanti conseguenze, le dominanti della «civiltà» americana avendo fornito, a tanto, l’ambiente più propizio e congeniale.

Nota all’articolo:

(1) Come volume italiano dove si possono trovare ulteriori ragguagli su questa corrente si può segnalare un ottimo studio di Battista Mondin, che reca lo stesso titolo del presente articolo: I teologi della morte di Dio (ed. Borla, Torino, 1968).