La recente vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico non poteva che dare nuova linfa a un tema che, dopo l’affossamento del disegno di legge Zan, sembrava aver perso risalto nel dibattito pubblico, ovvero la questione dell’identità di genere.
La teoria gender è un tema sul quale moltissimo si è scritto e detto negli ultimi anni, senza riusciretuttavia a coglierne la reale portata e il significato profondo.
Nata negli Stati Uniti a partire degli anni Cinquanta, nell’ambito di studi clinici relativi a condizioni patologiche come l’ermafroditismo e il transessualismo, la teoria gender si è via via sviluppata fino al punto di soppiantare i women studies, diventando un punto di riferimento imprescindibile per il pensiero femminista.
Ce ne parla accuratamente Flavio Ferraro in questo super articolo su Fuoco 9.
(www.leggifuoco.it) – La recente vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico non poteva che dare nuova linfa a un tema che, dopo l’affossamento del disegno di legge Zan, sembrava aver perso risalto nel dibattito pubblico, ovvero la questione dell’identità di genere.
La teoria gender è un tema sul quale moltissimo si è scritto e detto negli ultimi anni, senza riuscire tuttavia a coglierne la reale portata e il significato profondo.
Nata negli Stati Uniti a partire degli anni Cinquanta, nell’ambito di studi clinici relativi a condizioni patologiche come l’ermafroditismo e il transessualismo, la teoria gender si è via via sviluppata fino al punto di soppiantare i women studies, diventando un punto di riferimento imprescindibile per il pensiero femminista.
Questa corrente di studi – che ha trovato la sua consacrazione a livello mondiale nel 1990 con la pubblicazione del celebre Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, della filosofa americana Judith Butler – cerca di dimostrare che l’identità sessuale di un individuo non dipende dal sesso biologico, ma da norme o modelli culturali imposti dalle tradizioni, dalla società e dalla famiglia, norme che inevitabilmente tendono a essere interiorizzate e di conseguenza percepite come naturali: l’identità sessuale si riduce quindi a una costruzione culturale, completamente indipendente dal dato biologico e quindi dall’appartenenza sessuata.
Ma ciò che a nostro avviso è più significativo, e che ci sembra sia sfuggito alla maggior parte degli studiosi − i quali nel migliore dei casi si sono limitati a confutarne le posizioni da un punto di vista meramente filosofico – è che in tale tentativo di superare la differenza sessuale, fino al punto di negare l’esistenza di uomini e donne, si può ravvisare una grossolana parodia o contraffazione di un insegnamento tradizionale: ovvero quello della natura androgina dell’umanità primordiale, che ritroviamo in una forma o nell’altra in tutte le dottrine metafisiche e religiose.
Tra i moltissimi passi che potremmo citare al riguardo, si pensi innanzitutto a Genesi (I, 26-27): «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Oppure a questo passo del Simposio (189, d-e) di Platone: «Anticamente, la nostra natura non era identica a quella di adesso, ma differente. Innanzitutto i generi dell’umanità erano tre, e non solo due come adesso, cioè il maschio e la femmina […] A quel tempo infatti l’androgino era un’unità e partecipava, sia nell’aspetto che nel nome, di entrambi, il maschile e il femminile».
L’androginia che caratterizzava l’umanità edenica, naturalmente, non va intesa in senso letterale: essa simboleggia la condizione di pienezza e di armonia assolute di cui godeva l’umanità durante quella che la tradizione greco-romana definisce l’Età dell’Oro, epoca in cui l’uomo – non ancora separato da Dio – partecipava a uno stato di indifferenziazione principiale (simboleggiato nella tradizione biblica dalla ‘nudità’ di Adamo ed Eva). Si tratta dell’uomo primordiale, in cui il Cielo e la Terra, l’Essenza e la Natura – di cui il maschile e il femminile sono un’immagine – non sono ancora separati e si trovano in perfetto equilibrio. Da ciò deriva il significato spirituale della relazione amorosa tra l’uomo e la donna: come afferma A. K. Coomaraswamy, «la relazione coniugale è un sacramento e un rito in quanto riflesso e simbolo adeguato dell’identificazione in divinis dell’Essenza e della Natura».
Da qui deriva il carattere sacramentale del matrimonio, il quale permette all’uomo di riunire ciò che è stato separato, di ricondurre la molteplicità all’Unità (nell’Islam un celebre ḥadīth afferma che «il matrimonio è la metà della religione», tanto che la preghiera dell’uomo sposato ha molto più valore rispetto a quella di un uomo scapolo).
Il dispiegarsi della Creazione, infatti, avviene attraverso la separazione dell’Essenza e della Natura (Natura intesa come il ricettacolo o il supporto della manifestazione, identica a Prakṛti nel Vedānta), ovvero i due princìpi che costituiscono la polarizzazione dell’Essere universale (Dio o Uno), i quali entrando in correlazione tra loro producono lo sviluppo della manifestazione nella totalità indefinita dei suoi stati.
Questa separazione rappresenta una caduta nel tempo, e dunque nella molteplicità e nella morte, ed è per tale ragione che il matrimonio simboleggia la reintegrazione dei due princìpi separati, ovvero il maschile e il femminile, e quindi il ritorno all’Unità principiale («affinché il Cielo e la Terra siano nuovamente sposi», come recita Ṛgveda, X, 24, 5). In un testo gnostico infatti, il Vangelo di Filippo (68-20), leggiamo che «Nei giorni in cui Eva si trovava in Adamo, la morte non c’era; la morte sopravvenne allorché Eva fu separata da lui. Se rientra in lui, e se egli la prende in sé, la morte non ci sarà più».[…]