Tratto da RigenerazionEvola
In linea con gli approfondimenti di questo periodo, ci soffermiamo oggi sulla misteriosa figura del barone Roman Nicolaus (in russo Roman Fëdorovič) von Ungern-Sternberg (1886-1921), mitico combattente della Russia zarista di origini tedesche-ungheresi, passato alla storia anche come Ungern Khan, e con soprannomi un po’ grossolani, quali il Barone Nero, il Barone Pazzo, il Barone Sanguinario, per rimarcarne la fantomatica spietatezza. Su di lui pubblicammo già nel 2016 un articolo di Julius Evola uscito sul “Roma” nel 1973. In realtà a firma di Evola uscirono complessivamente cinque articoli su questa figura: il primo in assoluto nel 1939, come recensione pubblicata su Bibliografia fascista dell’opera romanzata “Ich Befehle” (Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg) (Io comando – battaglia e tragedia del barone Ungern-Sternberg), di Berndt Krauthoff, che riproponiamo oggi. Poi, partendo da questo scritto, Evola avrebbe riproposto l’argomento, come da prassi, per ben quattro occasioni sul “Roma”: nel 1950 (Sternberg “il sanguinario” salvò il Tibet dai rossi), nel 1954 (Sternberg l’ultimo degli antibolscevichi), nel 1958 (L’ultimo antibolscevico) e, infine, nel 1973 (Il barone sanguinario). Sul tema in tanti hanno scritto, ma ben pochi in modo corretto in termini tradizionali: vi proporremo, in tal senso, anche la recensione che René Guénon offrì del libro “Le Mors aux dents“, altro romanzo biografico su Ungern a firma di Vladimir Pozner.
Oggi, ad introdurre l’articolo di Julius Evola, anche per offrire un quadro di Ungern Khan realmente centrato in senso tradizionale, secondo quanto dicevamo, proponiamo uno scritto di Claudio Mutti, che riconduce la figura di questo mitico condottiero nel contesto eurasiatico, di cui abbiamo parlato molto nei nostri approfondimenti sulla Russia. E, per rimanere in quell’ambito, ricordiamo che di Ungern Khan hanno parlato anche il “nostro” Oswald Spengler, ed Alexandr Dugin: entrambi citati, in un altro saggio (L’eurasiatista a cavallo) sempre da Claudio Mutti.
In particolare, in un discorso tenuto ad Amburgo il 28 aprile 1924, Oswald Spengler rievocò la figura del barone guerriero, sottolineando come quattro anni prima egli avesse allestito un esercito “con il quale in breve tempo avrebbe avuto saldamente in pugno l’Asia centrale. Quest’uomo – disse Spengler – aveva legato incondizionatamente a sé la popolazione di vaste regioni, e se avesse voluto prendere l’iniziativa e la sua eliminazione non fosse riuscita ai bolscevichi, non ci si può figurare come risulterebbe già oggi l’immagine dell’Asia” (“Forme della politica mondiale”, Ar, Padova 1994, p. 63). Aleksandr Dugin, nel capitolo dedicato alla Siberia della sua opera “Misteri dell’Eurasia”, scrisse: “Senza dubbio, il simbolismo della missione del barone Ungern continua ad avere un valore assoluto, poiché attraverso lui, all’inizio del periodo più profano e sconsacrato della storia russa ed euroasiatica, si accese nuovamente la fiamma della ‘restaurazione euroasiatica’. Nella persona di Ungern Khan, ufficiale bianco di origine germanica, suddito dell’Imperatore russo e liberatore della Mongolia, si unirono le energie segrete che animavano le forme supreme della sacralità continentale; nella sua vicenda riecheggiarono l’alleanza tra Goti e Unni, la fedeltà russa alla tradizione orientale, il significato geopolitico della patria di Gengis Khan. Infine, non va sottaciuto il fatto che la famiglia degli Ungern derivava questo nome dall’Ungheria, una terra popolata da tribù di origine siberiana. A questo punto non sarebbe fuor di luogo domandarsi se nella persona del “barone folle” non sia da vedere una prefigurazione dell’Ultimo Avatara. Infatti la logica del destino di Ungern presenta tutti i particolari della “trama archetipica sacra”, della “via del guerriero”, in conformità con il più puro paradigma mitico”.
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di Claudio Mutti
Il sogno dell’impero eurasiatico, Ungern Khan
Il barone Ungern Sternberg è uno di quei personaggi storici i quali non alla storiografia debbono la loro fama, quanto piuttosto alla leggenda che intorno a loro si è venuta creando. Dal noto libro di Ossendowski Bestie, uomini e dèi (1) alle biografie romanzate di Pozner (2) e Krauthoff (3), che attrassero rispettivamente l’attenzione di Guénon (4) e di Evola (5); dal film sovietico Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Aleksandr Zarchi e Josif Chejfiz (con Nikolaj Cerkasov nei panni dell’eroe negativo Ungern) ai fumetti di Hugo Pratt (6) della serie Corto Maltese; dai romanzi di Jean Mabire (7) e di Renato Monteleone (8) fino alla pittura dell’artista siberiano Evgenij Vigiljanskij, abbondano le testimonianze del fascino esercitato dalla figura del “barone sanguinario”. Nella Russia di oggi, dove Leonid Juzefovich (9) ha pubblicato la più recente biografia del Barone, il mito di Ungern è particolarmente vivo presso le correnti eurasiatiste e imperiali, che guardano a questo personaggio come ad un loro precursore. Il carattere più leggendario che storico di questa figura sembra riflettersi nella stessa incertezza dei dati biografici. Secondo la Grande Enciclopedia Sovietica, Roman Fëdorovich Ungern von Sternberg nacque il 10 (o il 22) gennaio 1886 nell’ isola di Dagö (oggi Hiiumaa Saar, in Estonia) e morì il 15 settembre 1921 a Novonikolaevsk (oggi Novosibirsk).
Le fonti “occidentali” invece lo fanno nascere il 29 dicembre 1885 in Austria, a Graz; per quanto riguarda la morte, oscillano tra il 17 settembre e il 12 dicembre del 1921 e propongono ora Novonikolaevsk ora Verkhne-Udinsk (Ulan Ude, tra la riva sudorientale del Baikal e il confine mongolo). La famiglia di Roman Fëdorovich (che tra l’altro era imparentata con quella del conte Hermann Keyserling) nel corso dei secoli aveva prodotto cavalieri teutonici, diplomatici, alchimisti e corsari; rivendicava origini tedesche e ungheresi (addirittura unne!), ma si diceva anche che discendesse da un nipote di Gengiz Khan che nel sec. XIII aveva cinto d’ assedio Buda. E appunto dal fondatore dell’impero mongolo Roman Fëdorovich avrebbe ereditato l’anello di rubino con la svastica, mentre secondo un’altra versione glielo avrebbe consegnato il Qutuqtu, il Buddha Vivente di Urga, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo. Compiuti gli studi al Ginnasio di Reval, il Barone frequentò la scuola dei cadetti di San Pietroburgo; nel 1909 trascorse un breve periodo con un reggimento di cosacchi di stanza a Cita, in Transbaikalia, poi si diresse verso la Mongolia. Qui, grazie all’ affiliazione buddhista che gli era stata trasmessa dall’avo paterno, Roman Fëdorovich poté entrare in rapporto col Buddha Vivente. Nel 1911, quando i Cinesi vengono cacciati dalla Mongolia e il Buddha Vivente diventa Re del paese, il Barone riceve un posto di comando nella cavalleria mongola.
Ungern Khan in un’immagine del 1916-1917
In quel periodo, un oracolo sciamanico gli rivela che in lui si dovrà manifestare una divina potenza guerriera. Nel 1912 Roman Fëdorovich è in Europa. Allo scoppio del conflitto, abbandonando Parigi per accorrere sotto i vessilli dello Zar, il Barone conduce con sé una fanciulla di nome Danielle, la quale perirà in un naufragio sul Baltico. Nel 1915 combatte in Galizia e in Volinia, riportando quattro ferite e guadagnando due altissime onorificenze: la Croce di San Giorgio (10) e la Spada d’Onore. Nel 1916 è sul fronte armeno, dove ritrova l’ Atamano Semënov, che aveva conosciuto in Mongolia. Nell’agosto del 1917, dopo essere andato a Reval per organizzarvi alcuni distaccamenti di Buriati da impiegare contro i bolscevichi, Ungern raggiunge Semënov in Transbaikalia; qui diventa il capo di Stato Maggiore del primo esercito “bianco” e organizza una Divisione Asiatica di Cavalleria (Asiatskaja konaja divisija) in cui confluiscono mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, perfino tibetani, coreani, giapponesi e cinesi. La Divisione Asiatica di Cavalleria opera per tutto il 1918 nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria. Dopo l’evacuazione giapponese della Transbaikalia, la successiva occupazione cinese della Mongolia e l’instaurazione di un soviet “mongolo” sotto la direzione dell’ebreo Scheinemann e del pope rinnegato Parnikov, il generale Ungern si dirige verso la Mongolia alla testa dei suoi cavalieri. Il 3 febbraio 1921 investe Urga, costringendo alla fuga la guarnigione cinese, facendo a pezzi un rinforzo nemico di seimila uomini e spazzando via il soviet locale. Il Buddha Vivente Jebtsu Damba, liberato dalla prigionia e reintegrato nel suo regno, conferisce a Ungern, che d’ora in poi sarà Ungern Khan, il titolo di “Primo Signore della Mongolia e Rappresentante del Sacro Monarca”. Il terzo gerarca del Buddhismo lamaista riconosce in Ungern una cratofania procedente dal suo medesimo principio spirituale. Ungern aveva dichiarato fin dal 25 febbraio 1919, alla Conferenza Panmongola di Cita, la propria intenzione di restaurare la teocrazia lamaista, creando una Grande Mongolia dal Baikal al Tibet e facendone la base di partenza per una grandiosa cavalcata verso occidente, sulle orme di Gengiz Khan.
Il vero scopo di Ungern Khan non era infatti una pura e semplice distruzione del potere sovietico, ma una lotta generale contro il mondo nato dalla Rivoluzione Francese, fino all’instaurazione di un ordine teocratico e tradizionale in tutta l’Eurasia. Ciò spiega da un lato la scarsa simpatia di cui Ungern godette presso gli ambienti “bianchi”, dall’altro, il vivo interesse che il suo progetto suscitò anche al di fuori delle cerchie lamaiste, in particolare presso gli ambienti musulmani dell’ Asia centrale. Rivestendo la tunica gialla sotto il mantello di ufficiale imperiale, alla testa di un’armata a cavallo che innalza come propria insegna il vessillo con lo zoccolo e lo svastica, il 20 maggio del 1921 Ungern Khan lascia Urga e penetra in territorio sovietico presso Troitskosavsk (Kiakhta), travolgendo le difese bolsceviche. Quindi impartisce l’ordine apparentemente insensato di eseguire una conversione verso occidente e poi verso sud, in direzione dell’Altai e della Zungaria. La sua intenzione, secondo quanto lui stesso dichiara al suo unico amico, il generale Boris Rjesusin, è di attraversare il Hsin Kiang per raggiungere la fortezza spirituale tibetana. “Egli – scrive Pio Filippani Ronconi- mosse solitario verso una direzione che non aveva più rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensì di ricollegarsi, prima di morire, con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo” (11). Il 21 agosto il predone calmucco Ja lama, dopo avere ospitato Ungern nella propria yurta, lo consegna ai “partigiani dello Jenisej” di P.E. Shcetinkin. Il generale Blücher, comandante dell’ esercito rivoluzionario del popolo della repubblica dell’Estremo Oriente e futuro Maresciallo dell’URSS, cerca invano di convincerlo ad entrare nell’esercito sovietico. Il 15 settembre Ungern viene processato a Novonikolaevsk dal tribunale straordinario della Siberia. Riconosciuto colpevole di aver voluto creare uno Stato asiatico vassallo dell’ Impero nipponico e di aver preparato il rovesciamento del potere sovietico per restaurare la monarchia dei Romanov, è condannato a morte per fucilazione. L’anello con la svastica sarebbe entrato in possesso di Blücher. Si dice che, dopo la fucilazione di quest’ultimo, avvenuta nel 1936, esso sia passato nelle mani del Maresciallo Zhukov.
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di Julius Evola
Recensione di “Ich Befehle(Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg)”, di Berndt Krauthoff (Carl Schünemann Verlag, Brema, 1938), tratta da “Bibliografia Fascista”, Gennaio 1939.
In questi ultimi tempi si è cominciato a parlare con una certa insistenza di una figura che, nel tumulto dell’immediato dopoguerra, malgrado la sua statura non comune, era passata quasi inosservata: quella del barone Fjodorovic Ungern-Sternberg.
Ungern Khan in un suggestivo frame tratto da una serie tv russa a lui dedicata, “Wild Boar”
Il primo riferimento, ricco di tinte a forte effetto, si trova nel noto libro di Ossendowsky: Bestie, uomini e Dei, ove si parla dell’incontro e del tempo trascorso dall’autore presso il barone, nella Mongolia. A esso ha fatto seguito una vita romanzata dell’Ungern, pubblicata da Vladimir Pozner col titolo La mort aux dents. A proposito di questo libro, il noto scrittore tradizionalista René Guénon ha fatto conoscere, sulla rivista “Études Traditionelles”, degli interessanti estratti di lettere scritte nel 1924 dal maggiore Alexandrowicz, che ebbe a comandare l’artiglieria mongola agli ordini diretti di Ungern.
Infine, è uscito il libro in tedesco del Krauthoff, che qui segnaliamo, e che è di nuovo una vita “romanzata” del barone. A parte gli estratti già accennati delle lettere dell’Alexandrowicz, tutte queste opere sembrano non fornire una imagine proprio adeguata del barone Ungern, la vita e l’attività del quale furono effettivamente fuor dal comune, di natura assai complessa e, in parte, anche misteriosa. La stessa opera del Krauthoff, per quanto dichiari di rifarsi anche a notizie dirette avute da baltici, russi, cinesi e giapponesi, da prigionieri tedeschi in Siberia e da membri della Missione della Croce Rossa svedese in Siberia e nell’Estremo Oriente, sembra, come quella del Pozner, raccogliere informazioni non certe, non solo per quel che riguarda i dettagli, ma sulla stessa fine del barone.
Il quale può considerarsi come l’ultimo, strenuo avversario armato, che abbia avuto il bolscevismo. Discendente di un’antica famiglia baltica, Ungern-Sternberg combatté il bolscevismo con un odio implacabile, così come può odiare una forza elementare, inaccessibile a qualsiasi sentimento di umanità e a qualsiasi attenuazione.
Le sue gesta principali si svolgono in un mondo saturo di sovrannaturale, nel cuore dell’Asia, nel regno del Dalai-Lama. Il “barone sanguinario”, lo chiamavano i suoi avversari, intenti a circondare la sua figura con un’aureola di orrore e di spavento: il “severo Piccolo Padre” (cioè Zar) i suoi seguaci. Quanto ai Mongoli e ai Tibetani, essi lo consideravano meno come un uomo, che come una manifestazione del Dio della guerra, della stessa forza dall’alto da cui sarebbe “nato” Gengiskahn, il grande imperatore mongolo. Ed essi non credono alla sua morte: molti templi conservano ancora, nell’Asia centrale, la sua imagine, simbolo della sua “presenza”. Allo sfasciarsi dell’armata imperiale russa, alla quale apparteneva e con la quale sin dal 1914, si era battuto, il von Ungern, spostatosi a Oriente, vi organizzò un esercito, la cosiddetta “Divisione Asiatica di Cavalleria”, che fu l’ultimo a tener testa ai bolscevichi dopo la disfatta di Wranghel e di Koltshak. Alcune delle imprese che l’Ungern compì con questa piccola armata hanno del leggendario. Con essa egli liberò la Mongolia, occupata, a quel tempo, da truppe cinesi alleate con Mosca; liberato con un colpo di mano audacissimo il Dalai-Lama, da questi fu eletto primo principe e reggente della Mongolia e fu investito, con ciò stesso, di una dignità altresì sacerdotale. Poteva dunque restare quasi come un Re nella Mongolia. Ma egli aveva piani più grandiosi e, soprattutto, il suo odio e la sua sete di vendetta per i bolscevichi non gli davano tregua.
Sembra che la mira fondamentale del von Ungern fosse di creare un grande Impero asiatico, rivolto non solo contro la Russia sovietica, ma anche contro l’intera civiltà materialistica d’Occidente; e personalità misteriose del mondo orientale sembra che, a tal uopo, fossero entrate in contatto col von Ungern, la cui fama di condottiero invincibile guadagnava dovunque terreno. Sta in ogni modo di fatto che il barone, oltre che col Dalai-Lama, col “Buddha Vivente”, fu in rapporto con rappresentanti asiatici dell’Islam, della Cina e del Giappone, e che tali connessioni non furono di natura semplicemente materiale e militare, come da alcuni si pretende, a partir dai bolscevichi, che accusavano nell’Ungern un russo traditore passato al servigio del Giappone. Come si è già accennato, e come in parte risulta dalla stessa vita romanzata del Krauthoff, la figura del “barone sanguinario”, ultimo degli antibolscevichi, fu assai complessa. Le sue doti di capo, di guerriero e di stratega si univano non solo a una cultura vastissima, ma anche a facoltà, diciamo così, extranormali.
Una specie di intuizione diretta, confinante con un’autentica chiaroveggenza, gli permetteva, per esempio, di penetrare l’animo di chiunque egli fissasse, di riconoscere immediatamente in lui l’amico o il traditore, così come l’uomo adatto per l’una o per l’altra missione: gli aneddoti narrati dal Krauthoff sono, nel riguardo, assai suggestivi. Il suo disprezzo per la morte era, poi, sovrano, congiunto a una siderea lucidità – e a una specie di invulnerabilità. Nei tanti combattimenti a cui egli prese parte, fu ferito una sola volta, nell’attacco bolscevico alla stazione di Dauria, ed egli sapeva esattamente, per una predizione, che sarebbe stato ferito. Ecco poi un singolare accenno al potere che aveva, in certi momenti, lo sguardo del von Ungern sui nemici che egli fissava: «Egli provò un senso sconosciuto, inesplicabile, di terrore: una specie di sonno paralizzante si impadronì del suo petto, come un cerchio di acciaio che si stringesse sempre più».
Unger Khan in una foto che sarebbe stata scattata poco prima della sua fucilazione
Questo è un riferimento del Krauthoff. Quanto al maggiore Alexandrowicz, che col von Ungern ebbe lunga comunanza di vita, egli scrive: «Era inesorabile come solo un asceta può esserlo. La sua insensibilità superava tutto ciò che si può imaginare e sembrerebbe non potersi ritrovare che in un essere incorporeo, dall’anima fredda come il ghiaccio, non conoscente né il dolore, né la pietà, né la gioia, né la tristezza».
Il Krauthoff cerca, in un certo qual modo, di far derivare questo aspetto del von Ungern dal colpo che su di lui avrebbe prodotto la tragica fine di una donna da lui amata: ma, questo del Krauthoff, è uno scherzo di cattivo genere. Si tratta di ben altro. Non va tralasciato, che il barone era buddhista, questa fede essendo passata nella sua famiglia attraverso un suo antenato, che vi era stato iniziato in Estremo Oriente. Ciò a parte, l’accennato aspetto della figura del von Ungern rimanda invero ai caratteri uniformi riscontrabili in tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno spostato la loro coscienza in un piano superiore, più che umano, al quale non possono più applicarsi le ordinarie misure, i comuni concetti di bene e di male. Sono le qualità che spesso accompagnano i cosiddetti “uomini del destino”, e tale avrebbe potuto essere il barone von Ungern, un “Capo” nel senso più alto del termine, se egli avesse incontrato una congiuntura di circostanze favorevoli e, soprattutto, se le nazioni europee non avessero tradito o abbandonato a se stesse quelle forze russe, che ancora combattevano per la controrivoluzione e che all’Ungern avrebbero potuto aggregarsi Ciò non avvenne, e l’esistenza del barone ebbe solo il bagliore fugace e tragico di una metèora.
Dopo aver liberata la Mongolia, il von Ungern, ansioso di realizzare le fasi ulteriori del suo piano, marcia verso la Siberia, consegue importanti successi contro le truppe del generale rosso Blucher, occupa vari centri strategici, diviene un vero terrore per i distaccamenti comunisti, nel suo apparire e sorprenderli nei punti più inaspettati.
Ma, alla fine, si trovò solo. Mosca inviò importanti contingenti per farla finita con quest’ultimo paladino della Russia imperiale. Presso Verchneudjiusk, attaccato da forze più che dieci volte superiori, von Ungern è costretto a ripiegare, dopo un asprissimo combattimento.
Da questo momento, sembra che non si sappia più nulla di preciso sulla sorte del barone. I due autori della sua vita romanzata, il Pozner e il Krauthoff, vogliono che, alla fine, egli fosse tradito e abbandonato dal resto del suo esercito demoralizzato e che, fatto prigioniero dai rossi, venisse fucilato a Irkutsk. Il Krauthoff parla perfino di un colloquio che il generale Blucher, il “Napoleone rosso”, avrebbe avuto con Ungern, e di tutti i tentativi che avrebbe fatti invano per fargli abbandonare la causa dell’antica Russia e fargli accettare un posto di generale nell’armata sovietica.
Temiamo però che questa sia pura immaginazione, al massimo leggenda. Del resto, secondo le informazioni fatte conoscere dal Guénon, autore assai scrupoloso in fatto di autenticità in quanto egli scrive, o riporta, sembra invece che il von Ungern non fosse mai stato fatto prigioniero e che, ancor giovane, egli morisse di morte naturale. Un particolare, nel quale però tutte le versioni concordano, è che egli conoscesse esattamente la durata della sua vita e il giorno della sua morte.
E, volendo, vi sarebbe un coronamento ancor più fantastico nella storia dell’ ”ultimo antibolscevico”, del “barone sanguinario”. Sembra che nel castello dei von Ungern, situato nella regione baltica, abbiano avuto luogo recentemente delle manifestazioni di carattere “psichico”, cioè dei “fenomeni” extranormali, tutt’altro che unici nel loro genere. Chi è competente in un simile ordine di cose, sa di che cosa propriamente si tratta, sempreché questa informazione sia esatta e tali manifestazioni autentiche: un ultimo sopravvivere delle forze che hanno agito in una persona spintasi nella vita già quasi al di là dalla vita, prima della pace suprema.
Note
1 – F. Ossendowski, Bêtes, Hommes et Dieux, Plon, Paris 1924.
2 – Vladimir Pozner, Le mors aux dents, Denoël, Paris 1937.
3 – B. Krauthoff, Ich befehle. Kampf und Tragödie des Barons Ungern-Sternberg, Carl Schünemann Verlag, Bremen 1938. Questo libro, come pure quello di Pozner, rielabora i dati forniti da un testimone: Essaul Makejev, Bog voiny, Baron Ungern (Il dio della guerra, il Barone Ungern), Shangai 1926.
4 – R. Guénon, Rec. in Le Théosophisme, Éditions Traditionnelles, Paris 1978, pp. 411-414.
5 – J. Evola, Rec. in Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia Fascista”, vol. I, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1994, pp. 249-253.
6 – Il Barone Ungern è anche uno dei personaggi principali del romanzo di Hugo Pratt Corto Maltese. Corte Sconta detta Arcana, Einaudi, Torino 1996.
7 – J. Mabire, Ungern, le dieu de la guerre, Art et Histoire d’Europe, Paris 1987.
8 – R. Monteleone, Il quarantesimo orso, Gribaudo, Torino 1995.
9 – L. Juzefovich, Samoderzhec pustyni (L’autocrate del deserto), Ellis luck, Mockva 1993
10 – Secondo la tradizione, Ungern Khan, poco prima di essere fucilato, avrebbe ingoiato la sua medaglia raffigurante la Croce di San Giorgio per impedire che essa cadesse nelle mani dei bolscevichi (N.d.R.)
11 – Pio Filippani Ronconi, Un tempo, un destino, “Vie della Tradizione”, n. 82, aprile-giugno 1991, p. 59.