La Pietas di un centurione

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Lo stile di riferimento del militante della Tradizione è lo stile romano.
Su questo non ci piove e, proprio per questo, poniamo questa affermazione in maniera così netta e lapidaria, atteso anche che autori ben più autorevoli, come Guido De Giorgio o Julius Evola, hanno argomentato tale affermazione, da ciò desumendo gli elementi di stile alla base di ogni ascesi militante.
Ripartendo dunque dalle basi, come ogni tanto è opportuno fare, dedichiamo una meditazione particolare alla Pietas, fondamento dello stile e della vita dell’uomo romano e chiave per comprendere l’autentica romanità.
La Pietas è il senso di riconoscimento della Divinità e dei doveri verso gli uomini e gli antenati che tale riconoscimento comporta. Esempio di Pietas per eccellenza è proprio Enea, che, soprannominato il “pio” e proprio per questa propria qualità, fu posto da Virgilio come capostipite del popolo romano e della Gens Iulia.
Affinché tale meditazione possa essere interiorizzata e sedimentarsi nei cuori, riflettiamo sulla Pietas mettendo al bando le astrazioni e ripartendo da un esempio forse meno noto, ma invero molto potente, evocativo e didascalico di cui ci parla proprio il Vangelo (non può infatti esserci contraddizione tra le espressioni del Sacro), in maniera tanto semplice quanto diretta ed efficace:
Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: «Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente». Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò». Ma il centurione riprese: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa».
All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti». E Gesù disse al centurione: «Va’, e sia fatto secondo la tua fede». In quell’istante il servo guarì.
(Mt. 8, 5-13)
Cos’è che spinge il Signore ad affermare che proprio la fede di questo centurione, un personaggio tutto sommato di passaggio nei Vangeli, di cui non si conosce nemmeno il nome, fosse la più grande?
Meditiamo sul brano.
  1. Innanzitutto, avere un cuore semplice. Il centurione riconosce la Divinità in maniera semplice, secca e immediata, senza alcuna cavillosità o complicazione: Gesù, dopo essere entrato in città (Cafarnao), ossia, dopo aver bussato al cuore, ha trovato subito il riconoscimento di chi ha saputo andargli incontro senza troppi ragionamenti o sovrastrutture («gli venne incontro un centurione che lo scongiurava»);
  2. dopo il riconoscimento del Signore, il consegnarsi a Lui totalmente, senza alcuna richiesta, solo “raccontando”, affidando la propria vita a piene mani e ciò che al momento la affligge: il Centurione semplicemente racconta a Gesù, senza chiedere nulla, della malattia del proprio servo, giungendo invece dal Signore la proposta di guarigione; Dio, infatti, non rimane mai indifferente a chi si consegna a Lui, conoscendo le esigenze e le preoccupazioni dei cuori ben prima che queste siano esposte;
  3. mettere da parte il proprio ego, avendo a cuore il proprio fratello. Il centurione, infatti, non parla di sé, ma solamente del proprio servo, perché solo lui ha a cuore. Dal punto di vista del centurione, questa è l’unica possibilità che egli avrebbe avuto di incontrare il Signore e parlargli, ma, nonostante ciò, egli si dimentica di sé e ricorda solo il suo fratello ferito dalla sventura che, in questo caso, dimostra di amare come se stesso: egli chiede al Signore di sanare il proprio servo e, per un uomo di Dio, il più santo auspicio è di essere sanato dal Signore. Quella tra il centurione e il servo è una fratellanza che, di fronte alla sventura, non conosce più titoli, riconoscimenti o gradi; anzi, come nel caso dei veri capi, per il centurione il grado è uno strumento per mettersi al servizio del proprio sottoposto;
  4. il riconoscimento della propria limitatezza, che, al contempo, non diviene un alibi per non farsi avanti. «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito»: è autentica semplicità / umiltà, di chi sa di non essere mai pienamente degno, ma che proprio per questo sa che può e deve chiedere aiuto, consapevole dei propri limiti e delle proprie possibilità, forte della fiducia nell’Amore di Dio. L’atteggiamento romano, dunque, è totalmente opposto a quello dei farisei, che ammantano la loro superbia di ipocrisia, mostrandosi malmessi e con capo cosparso di cenere nei giorni di digiuno, ma pregando ritti per farsi vedere e, in cuor loro, ringraziando Dio per non essere «come gli altri uomini» (Lc 18,9-14); 
  5. la fiducia e l’abbandono totali, come quelli del centurione che, sapendo di essere in buone mani, quelle di Dio, si affida e non dubita. «Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa»: il centurione sa che, come lui stesso ha il potere di comandare e cerca di farlo al meglio, massimamente Dio non può che ‘fare le cose al meglio’ e per questo a Lui si abbandona fiducioso, rimettendo tutto nelle Sue mani;
  6. il non cercare segni. Lo stile del centurione, che è lo stile romano, non è l’atteggiamento superstizioso di chi cerca i segni per rafforzare la propria fede o per comprovare il favore della Divinità. «Di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» è come dire «non devi dimostrarmi nulla, Tu, che se vuoi puoi: sia allora fatta la Tua volontà, in cui rimetto la mia, perché so che, in qualsiasi modo Tu voglia farlo e oltre la mia aspettativa solamente umana, Tu farai qualcosa e lo farai al meglio», nell’intima certezza che ciò che il Signore compirà, che sia visibile o non visibile, immediato o posteriore, è comunque la cosa migliore e al momento giusto. 
Ebbene, al di fuori di ogni fantasmagoria e volo mentale, questa è la Pietas: una fede autentica perché semplice ed essenziale, che ci svuota dell’io e ci riempie di Dio
Al di fuori di ogni polemica e derby, nell’avvicendamento delle forme e delle rivelazioni, il Verbo – che in un dato momento si è fatto carne – conserva, ‘battezza’ e ci propone uno stile: lo stile romano di chi ha «una fede così grande!», la Pietas di chi sa che Dio non può non compiere ciò che è Giusto, a cui rimettere totalmente la propria volontà.