“The Sanctuary”: la Via del Sumo fra tradizione e innovazione

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Capita raramente di imbattersi in una serie tv, tanto più se prodotta da Netflix, che valga la pena di guardare. Tanto più se i protagonisti sono il combattimento, il confronto-scontro con le tradizioni, l’agonismo come misura di sé e i rituali che compongono l’anima profonda di una nazione. In questo caso, parliamo di “The Sanctuary” una recente serie dedicata al Sumo ed al Paese del Sol Levante.
Ma cos’è il Sumo? Facendo una qualunque ricerca o googlando questa parola, scopriremo che il Sumo è definito come lo sport nazionale giapponese per antonomasia. Non serve, invece, alcuna ricerca per notare che è incomprensibile agli occidentali come, in realtà, molte delle cose provenienti dall’Oriente autentico, visto che viene equiparato dai più come una sorta di “wrestling”. Il motivo di questa incomprensione, probabilmente, sta anzitutto nel cercare di configurarlo proprio come uno “sport”. Il Sumo è più che semplicemente uno sport: si tratta di un’esperienza culturale e rituale profonda ed unica, fondato su tradizioni che risalgono a più di 1.500 anni fa. Il Sumo è perciò un complesso di rituali, usanze e costumi che non hanno paragone nella quasi totalità degli sport contemporanei.
La serie “The Sanctuary” racconta il mondo del Sumo visto da dentro, con tutte le sue contraddizioni, i suoi difetti, la corruzione e le miserie umane ma dove il riscatto e la redenzione passano proprio attraverso il ritorno alle origini, allo spirito autentico di questa disciplina. Riavvolgiamo però prima il nastro: il protagonista è Kyoshi uno scapestrato ragazzotto giapponese che vive un po’ ai margini della società, fra teppismo e povertà, con una famiglia distrutta dai debiti alle spalle. Così tra piccoli furti e bullismo praticato sui più deboli, Kyoshi smette presto di praticare il judo dove sembrava poter avere belle speranze per lasciarsi andare ai margini delle contraddizioni della società giapponese e dei suoi rigidi schemi socio-economici.
Il nostro protagonista, un adolescente giapponese ma non così diverso da quelli nostrani, non ha esempi da seguire se non quelli del divertimento, dei vestiti firmati e della prepotenza. Incolpa la società e i genitori (separati) per la terribile solitudine che lo abita e che riesce a gestire solo attraverso una alienazione da tutti e tutto. Fino a quando, proprio facendo leva sulle buone possibilità di guadagno che la carriera professionistica nel Sumo garantisce agli atleti affermati, un oyakata (un maestro di Sumo) di nome Ensho non gli propone di entrare in una delle scuole (“scuderie”) di Sumo.
Motivato dal sogno di denaro, donne e successo, e pensando anche dall’opportunità di ripagare i tanti debiti accumulati e regalare al padre una vita migliore, che apparentemente disprezza, Kyoshi accetta l’offerta. Non avrebbe immaginato però di trovarsi improvvisamente catapultato in un mondo molto più spietato, rigoroso e brutale di quanto non fosse la sua vita vissuta ai margini dell’ipertrofica periferia urbana giapponese. Un mondo che gli appare fatto di nonnismo e rivalità personali interne alla stessa scuderia e fin troppo legato a un’arcaica concezione della società, feroce e – come si direbbe qui da noi – patriarcale.
Kyoshi inizia a vivacchiare svogliatamente all’interno di questa accademia, che è una vera e propria “caserma”. Le scuole di Sumo sono, infatti, luoghi dove i rikishi (i lottatori di Sumo) possono allenarsi e vivere insieme secondo la tradizione Sumo, tutti i giorni, insieme. Il lavoro giornaliero dei membri delle scuole consiste nell’allenamento fisico e nel migliorare le proprie abilità. Il protagonista vive con insofferenza e insubordinazione continua all’interno della scuola, dove domina una gerarchia che gli appare vuota di senso, con il maestro in cima, con il suo seguito dei sostenitori e dei lottatori fino a quelli più piccoli e meno affermati nelle categorie professionistiche.
Quello che la serie non dice abbastanza, è che oltre ad un intenso programma di formazione fisica, le scuole di Sumo offrono anche attività che agli sportivi nostrani sembrerebbero inutili pratiche. Queste attività includono tecniche di meditazione, cerimonie di purificazione e la lettura di antiche poesie giapponesi. Ma se anche fosse stato raccontato il protagonista se ne sarebbe ben guardato visto che la sua quotidianità è scandita da una irriverenza odiosa e irrispettosa verso tutti e tutto, compresa la virile disponibilità degli atleti più grandi che – vedendo in lui del potenziale enorme – cercano di stimolarlo a vivere e praticare la disciplina secondo la tradizione.
Quello che progressivamente avviene, però, è una sorta di saturazione dell’insoddisfazione di Kyoshi, sempre più diviso tra il dovere di mandare dei soldi per le cure del padre (nel frattempo ammalatosi) e spenderli al seguito di ragazze e ricconi che fanno la bella vita che tanto lui vorrebbe per se. Nel dohyo, l’iconica zona di combattimento del Sumo, Kyoshi viene sbeffeggiato e annientato dai suoi stessi compagni che non gli tributano alcuna considerazione per via dei suoi comportamenti. Questa saturazione alla fine arriva ed esplode ma, contro ogni aspettativa, lo fa in modo positivo e affermativo: Kyoshi (ri)scopre il senso del Sumo e comincia a trovare armonia e stabilità proprio nel rispetto della tradizione. La sua appartenenza alla scuola assume giorno dopo giorno quella che si potrebbe provare verso una famiglia o una comunità: tutte cose che non ha mai avuto nella sua giovane vita. 
“Enno” – il nome che a Kyoshi è stato dato come combattente dal suo maestro una volta entrato nella scuola – (ri)sorge in lui. Dai primi incontri in cui Enno combatte in maniera scomposta ed a tratti scorretta, violando tutti i cerimoniali possibili, si assiste ad una evoluzione la quale, oltre che nell’arena, diventa la cifra della trasformazione e del riscatto personale di Kyoshi. Ogni avversario è la metafora dei fantasmi della sua esistenza, e ad ogni vittoria Enno e Kyoshi sono sempre più la stessa cosa. Il “ring” dove si combatte e il dohyo dove ci si allena diventano un “santuario” da onorare e ringraziare per l’opportunità di combattere e crescere, dove praticare l’onore e andare oltre. 
Così, neanche una sonora e dolorosa sconfitta che lo obbligherà ad un lungo periodo di recupero fisico (e mentale) riuscirà a fermare Kyoshi, ormai schifato dalla vita precedente e dalle cattive frequentazioni che lo avevano caratterizzato. Il nostro lottatore, da pecora nera della scuola, diventa un esempio per progressiva abnegazione, tanto da stupire anche il suo maestro con cui si riconcilia proprio per il rinnovato rispetto con cui il nostro protagonista vive la scuola e la pratica del Sumo.
La prima stagione si conclude nel momento del massimo sforzo di Enno contro un temibile avversario e fa ben sperare per una seconda stagione che – se non si perderà nei meandri della spettacolarizzazione fine a se stessa o nell’esaltazione della cancel culture a cui Netflix ci ha tristemente abituato – meriterà di essere vista. Rigorosamente in lingua originale e sottotitolata (unica modalità di fruizione, in realtà!) per non perdere nei toni e nelle atmosfere dei dialoghi originali le tipiche sfumature della cinematografia nipponica e la sua cifra stilistica.