1917, un film che racconta cos’era l’uomo

886

Sono al cinema, un venerdì sera come tanti, per vedere “1917”. Un camerata me ne ha parlato bene, anche se racconta di inglesi e io, come sempre, nelle guerre mondiali preferisco i tedeschi. Durante il film, meraviglioso, una scena mi colpisce.

Gli inglesi Schofield e Blake sono appena usciti miracolosamente vivi da un bunker che i tedeschi hanno lasciato deserto in ritirata strategica, non prima di averlo disseminato di trappole che, al passaggio dei due inglesi, hanno azionato della dinamite, allo scopo di seppellirli vivi sottoterra.
Schofield è quasi morto, Blake lo ha salvato da sotto le macerie. Entrambi stanno realizzando una missione molto delicata e Blake ha un motivo in più per portarla a termine: salvare la vita a suo fratello, arruolato in un altro battaglione a rischio agguato tedesco.
Fuori dal bunker, ancora impolverati e terrorizzati, realizzano il pericolo scampato. Schofield – che è stato coinvolto da Blake in questa missione senza averlo scelto – rimprovera il commilitone-amico con uno sfogo: “Perché hai scelto me? Perché io? Perché dovevi scegliere me per questa missione-suicidio?”. Blake si giustifica: non sapeva in cosa consistesse la missione. E concede all’amico: “Se vuoi mollare, ti capisco, resta qui. Proseguo da solo”. Ma Schofield nemmeno lo guarda in faccia e già lo precede nel passo: ha bevuto acqua, si è sistemato la divisa e già marcia spedito verso l’obiettivo. Non c’è stato bisogno di rispondere, la resa non è contemplata, la paura della morte li accompagna, ma il cameratismo e il senso dell’onore sovrastano ogni pensiero sulle loro giovani vite in bilico sull’orlo della morte.

Il film è finito, riprendo il cappotto, me lo infilo e mi avvio verso casa in una fredda notte di Roma. Non c’è nessuno per strada.

Nulla mi distrae e rifletto sul film che ho appena visto. E faccio un’altra considerazione: quanto è cambiato l’uomo dal 1917, dalla prima guerra mondiale, al 2020, con questa psicosi del virus?
Se penso a quel film e poi a quel che vedo nei telegiornali e per le strade devo dire che sembra di avere a che fare con due diversi ceppi di essere viventi: che ne so, tipo cavalli e galline, insomma, qualcosa di veramente diverso tra loro, qualcosa di distante anni luce, non già poco più di 100 anni.
Perché questa sensazione? Presto detto: per il valore che viene dato alla vita nell’uno e nell’altro caso. Per la considerazione che si dà alla propria esistenza su questa terra. Da una parte un film di ‘normali’ soldati in trincea di guerra, dall’altra esseri umani ‘progrediti e tolleranti’, terrorizzati da un virus. E la domanda è d’obbligo: cosa siamo noi esseri umani oggi? Siamo ancora uomini, se quelli di 100 anni fa erano autenticamente uomini? Cosa siamo diventati? Siamo della stessa razza?
Sì, è vero Schofield ci pensa a ‘chi glielo ha fatto fare e maledice per un attimo il commilitone che lo ha coinvolto nella battaglia, ma poi riprende subito il suo posto e marcia avanti. Sì, Blake è terrorizzato dai pericoli, ma che vuoi farci: è la guerra, ci sono soldati e un fratello da salvare, e si va avanti, piedi nel fango e senza sonno
Perché la vita per questi uomini, per gli uomini di 100 anni fa – mica millenni – era proprio così: una ‘vita per’ (vedi il Dispaccio – “4 Novembre: comunque fu Eroismo”). Per compiere il proprio dovere, per salvare un fratello, per accompagnare un amico in un’impresa difficile. Una vita da spendere, una carta da calare se serve, se occorre, se vi sono ‘beni più grandi’, principi e valori superiori da onorare: certo, la morte fa paura, si muore ed è difficile sentirsi pronti, soprattutto a 20 anni, ma questo è il ‘gioco serio’ della vita, queste sono le dinamiche esistenti, questo è il ‘qui e ora’. La vita è uno strumento, la ‘vita per’.
E invece, l’uomo fluido e democratico di oggi? Il borghese coraggioso solo nel traffico, che fa? Lui non vive una ‘vita per’, bensì lui vive ‘per la vita’. Guai a chi gliela tocca, si terrorizza se qualcuno o qualcosa la mette in discussione, si illude di campare in modo da preservarla, si illude di poterla controllare e salvare dai pericoli. Si illude che la sua vita sia ‘sua’ (mentre invece è solo Sua). La vita, questa vita ordinaria e orizzontale, comoda e sistemata è l’unica cosa che ha: non sa da dove viene (gli hanno detto che sta qui per caso…), non sa chi gliel’ha data ma non gli interessa. Deve tenerla, conservarla, portarla il più avanti possibile, evitare pericoli e problemi, scansare preoccupazioni e impegni: nulla è più importante del potersi svegliare domattina, del ‘domani’ che ‘speriamo arrivi la svolta!’.
L’uomo moderno ha rinunciato a vivere per qualcosa, a dedicare questo suo breve passaggio a qualcosa di eterno, di più grande, che supera proprio questo passaggio perché viene da prima, viene da più in alto e più in alto ritorna.
Un tempo, 100 anni fa, invece, non era così l’uomo: amava la vita, ma solo perché gli permetteva di superarla.
Lucio Sentenze